Carla è un nome da ballerina e da baller

L’estate s’è fermata in questo Settembre così pigro, da restare incastrato tra le pieghe della risacca sulla spiaggia. C’è la temperatura giusta, ogni tanto. Quella da condizionatore per intenderci. Non quella mia ideale, che è di 16 gradi, fissi e perpetui. L’inverno sta arrivando e me n’accorgo dalle strade che odorano sempre più d’asfalto, gomma e olio bruciato e sempre meno di salsedine.

Ci sono mille vite, tutte strette tra le braccia di una esistenza che attraversa le stesse pene, gli stessi sorrisi e spesso la stessa solitudine. Ho scelto un campo, alla periferia dello sport. Una squadra che non conosco davvero, uno sport che non comprendo fino in fondo.

Le guardo allenarsi, c’è questa preoccupazione che non mi lascia mai. Non voglio imparare i loro nomi, se lo faccio m’affeziono a loro e devo fargli spazio nel cuore. Finirà con l’importami, davvero. Lì, di spazio, non ne è rimasto tanto. Se le faccio entrare spero che prendano posto senza sporcare e se vanno via, lascino almeno un sorriso e un grazie. Anche solo uno dei due.

Partitella. Resto seduto vicino ai bimbi che giocano con la Switch, spero non arrivi qui una pallonata a caso. Per timore di colpire loro almeno.
Capelli ricci, dribbling a saltare l’avversario, che non fa molto per affondare il contrasto. Corsa sulla banda laterale, tiro ad incrociare, fuori. La prima volta che ho visto Carla, mi sono chiesto che giocatore sarebbe stato con venti chilogrammi in meno. Ora mi chiedo cosa ci fa con quei piedi in Serie C. E’ freddo, umido e c’è in lontananza il lamento di quelli che giocano a Padel. Più simile al muggire del pascolo.

La risposta alla mia domanda forse è semplice. Sarà capace di eseguire quel gesto al doppio della velocità? Le importa davvero? È disposta a sacrificare tutto e forse non vincere niente? Non sono risposte ma domande. Chi dice che non possano essere entrambe, allo stesso tempo?

L’universo del calcetto s’è trasformato, conquistato a forza di racchettoni, pareti trasparenti e dio denaro. Una divinità che adora anche il partito comunista cinese, evitiamo di scandalizzarci. Carla non mi saluta, mi ricorda che è dimagrita di tredici chili solo per le fotografie. S’avverte nella cadenza delle parole, dal suono quasi trionfale l’orgoglio per questo risultato.

Le compagne la chiamano ora “secca”, così è la vita, qui alla fine del futsal e dove inizia il calcetto. Durante la partitella sfoggia il suo nuovo corpo, che è poi quello vecchio ma non credo che a ventisette anni si possa applicare il termine “vecchio” a Carla. Forse lei si sente anche così, come se le fosse scaduto il tempo, come se fosse in ritardo per qualcosa. La corsa è una progressione impressionante, è come guardare Vieri, Bobone, ma con i piedi più educati.

Ha un solo tipo di dribbling. A questo livello basta, lo esegue ad una velocità sufficiente a saltare sempre l’avversario. Ho questa tendenza a guardare oltre, a immaginare il futuro e continua a tamburellare la stessa domanda, sempre identica: “sarebbe capace di eseguirlo ad una velocità maggiore?”. Forse no, forse è un giocatore di categoria. Lo sguardo sempre rivolto al domani, al futuro è una sorta di inquietudine che mi porto dentro da sempre. Almeno da quando qualcuno, con un camice bianco, m’ha detto che non avevo più tempo. Così tanti anni dopo, non sono riuscito mai a scrollarmi quell’avidità di sapere di dosso.

Carla guarda alle sue conquiste, con quella fierezza che trasuda dal muro delle difficoltà. Con la dignità, di chi non ha mai mollato anche quando poteva, quando sembrava dovesse. Il ritmo della sua voce è scandito dall’ansia e poi dal timore per la morte improvvisa. Sembra una danza, i passi sono le sue parole. I pensieri s’alternano e qualcuno prendere forma con la sua voce, altri restano custoditi, dietro ad un muro di pudore. Altri scorrazzano via, come gli opossum. Difende la sua posizione e argomenta.

Ha un nome da ballerina, da baller come dicono gli anglosassoni ma anche da signora anziana dal parrucchiere. Quella che legge con finto sdegno l’ennesima opera editoriale di Alfonso Signorini. Notate l’assonanza di nomi vetusti? Ecco. M’arriva il calendario della stagione sullo smartphone, ci sono paesetti abruzzesi con nomi che ho sentito vagamente nominare. Alla seconda di campionato c’è la partita con il Chieti. Se sei di Pescara, quella è una partita che non voi perdere. Le lotte di campanile, in provincia contano, ancora tantissimo.

Nella sua vita ci sono i gatti con l’animo agile, qualche chilo sulla pancia pelosa e la felicità nelle fusa. I viaggi con la mamma, perché il mondo lì fuori è così vasto che non puoi fermarti al tuo cortile. Devi frugare in giro, spargere la tua vita che poi alla fine tanto non se t’avanza non la puoi mica lasciare ad altri in dote. Le lingue non servono, non quelle dell’università, non l’istruzione superiore, altrimenti i primi 5 della lista di Forbes degli uomini più ricchi al mondo avrebbero finito il college. Ma anche li non vuoi lasciare il tuo percorso senza aver tagliato il traguardo.

Scivola via così, in un condensato di vita e un atto di fiducia, assoluta, la prima di tre storie, di strade che conducono tutte allo stesso campo. Quel tappeto verde, d’erba di plastica. Pieno di sogni ma illuminati male da quelle luci che non splendono come quelle del campo di padel. Volti a cui imparerò a dare dei nomi, che diventeranno storie, il racconto di una stagione di fede assoluta. In loro. Perché tutti abbiamo bisogno di credere in qualcosa, io ho scelto loro.

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