Le treccine e i gol

Ripartiamo dagli occhi “bluissimissimi”. Quelli di questa copertina. Così, per annodare i fili del racconto di questi giorni di pallone, sorrisi, lacrime e piccole donne.

Guardo le distinte di gioco.
Susanna e Greta, duemila tre. Ho solo un vago ricordo del 2003. Facevo qualcosa, probabilmente in molti casi nulla che vorrei ricordare ma senza pentirmene.

“All the love you won’t forget
And all these reckless nights you won’t regret”

Insomma qualcosa del genere.

Ci sono partite che ti travolgono, come una slavina che diventa valanga. Provi a restare sopra il livello della neve, per continuare a salire verso la vetta. Ecco Susanna e Greta sembrano non essersi accorte di quei numeri sul tabellone. Ci credono, continuano a crederci con quel misto di forza di volontà e forza fisica. La giovinezza, dicono. Ora, come nel primo tempo. Quando sotto di tre, di pura rabbia agonistica le hanno recuperati due. Il secondo uno scatto disperato e bellissimo proprio di Susanna, poi tiro ad incrociare. Bello per la speranza che ha regalato.

Bello perché a quello sono seguite le lacrime. Scendono e rigano il viso. Il tuo corpo ha detto basta, il dolore s’è preso l’ultimo spazio di coraggio ma tu provi a rientrare in campo lo stesso. La tua caviglia si spegne, come se all’improvviso le mancasse la corrente. È il momento del fischio finale. Non potrai mai dire di non averci provato.

Finisce tra polaroid sfocare, le vostre, quelle troppo scure delle vostre avversarie. I ricordi però a volte sono così. Scorrono troppo in fretta e quindi sono fuori fuoco, scure perché non tutto quello che conserviamo nella memoria è piacevole. Istanti, con una musica a volte, come quella di questo palazzetto che per una volta non oltraggia le orecchie di chi l’ascolta.

“Fai una posa naturale, come se non ci fossi”. Trovo poi le foto con la maglia dell’Atalanta, quelle con lo sguardo da calciatrice vera. Ora indosserai una maglia nuova, in uno sport diverso e non ti vedrò attraversare il campo da futsal con quella falcata che mi ricorda tanto Gareth Bale. Con quel tiro di sinistro che sembra sempre fuori asse e finisce però inevitabilmente in gol. Ciao Greta.

Se non concretizzi un rigore, due tiri liberi e pareggi quando in cronometro della partita conta i centesimi di secondo poi ai rigori, le divinità del futsal possono anche pensare d’averti concesso tanto, forse troppo. Adoro i gol sulla sirena, forse per quelle esultanze generose. Quei lunghi abbracci collettivi, per la gente in campo arrivata da chissà dove. T’insegnano a vivere dentro al momento. Allungano un istante, all’infinito.

Il rumore del palo, ha spesso lo stesso suono della sconfitta. Ti respinge, proprio lì, ad un passo. Quello troppo corto per permetterti di raggiungere la vetta. Quella che ora diventa troppo lontana, irraggiungibile.

Mi fermo a guardare la semifinale maschile. Ho l’impressione sempre che qualcuno abbia compiuto 19, già almeno un paio di volte. Ecco la prima differenza. I ragazzi sembrano troppo grandi, le ragazze troppo giovani.

“Futsal is my time”, due volte? No. È già troppo ascoltarlo quando ancora si deve, ripeterlo è tortura.
Qui i portieri sfiorano con la testa la traversa. C’è un giocatore in maglia bianca così grosso da far sembrare il campo piccolo. Con un destro esplosivo ma proprio nel senso che temo che ad ogni conclusione a rete, esploda la sua scarpa.
Marcature strette, tanto che senti il sudore del tuo avversario gocciolarti addosso. Il parquet stride più forte, quando i giocatori cambiano direzione.

C’è tutto il repertorio del futsal, ma anche di qualsiasi altro sport. Contrasti al limite, pubblico vociante e una marea di parole dagli spalti. Qualcuno aggiunge: “con educazione” e ma questa deve essere una roba che non s’impara in un corso di buone maniere. Proteste a non finire, animi che si riscaldano, allenatore espulso e corridoi degli spogliatoi che diventano campi minati.

Il campo alla fine emana la sua sentenza. Domani ci sono le finali, quelle diventano magiche perché assegnano un titolo, perché si vince davvero qualcosa. Una coppa, che speriamo non sia brutta, perché in Italia si produce la Coppa del Mondo. Avere coppe che non sono belle, così per usare un eufemismo, è un delitto.

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