Sono la stessa donna

Cosa ci fa Tainã, con quella che sembra una fiaccola olimpica? Quelle di Tokyo sino appena finite, quelle di Parigi ancora troppo lontane. Google is my friend. Bastano pochi minuti ed ho una risposta. Si tratta di una sorta di cerimonia del fuoco patriottica, qualcosa che si svolge nella Regione del Rio Grande do Sul.

Superando quella che è una iniziativa locale brasiliana, mi soffermo a riflettere sulla donna Tainã, non la giocatrice ma quella parte che arriva immediatamente prima e che inevitabilmente segue. Non vincerà la giocatrice, mai concorsi di popolarità, non credo nemmeno che le interessi davvero.

M’affascina però quel suo sentire come un dovere profondo, l’impegno nel sociale. È praticamente ovunque, quando torna in patria. A parlare alle scolaresche, ai gruppi. Gioca, patrocina tornei, raccolte fondi, qualsiasi attività che abbia una qualche ricaduta sul tessuto collettivo del suo territorio. Quegli stessi tornei che qui, offrono come primo premio 200 arrosticini, li offrono derrate alimentari. Nel “belpaese” sono una gustosa aggiunta, lì una profonda necessità.

Qualche tempo fa, le ho chiesto di spiegarmi, il perché di tutto questo suo spendersi per la comunità. In realtà più che la risposta, m’interessava guardarla negli occhi. Comprendere quanto sincero fosse il suo sentimento. Ne parla con un entusiasmo assoluto, profondo e a tratti quasi malinconico. Accompagnato da quel desiderio che bimbi e bimbe capiscano, che lo sport può essere un veicolo di emancipazione, sociale ed economica.

M’ha mostrato i luoghi in cui è cresciuta, quello che è stato il panorama della sua infanzia. Forse è vero che i migliori talenti arrivano anche dalle “villa” argentine e dalle zone più remote del Brasile. Una delle prime “querelle” che ricordo di aver dovuto affrontare nel futsal femminile vedeva coinvolta proprio lei e un portiere di A2 al quale aveva fatto “la bicicletta” per segnarle un gol. Mettemmo in risalto il gesto e il portiere la prese malissimo. A distanza di anni, posso dire che avrei risposto all’estremo difensore, meno cordialmente.

Cordialità. Se fossi un suo compagno di squadra, in campo a Tainã credo potrei dare una testata. Sono sicuro che finiremmo con il discutere. Lì su quel rettangolo di gioco. Faccio outing. No, non in quel senso, sciocchi. Mi sento proprio di rassicurarvi. Confesso che adoro questa donna, fuori dal campo. Non dovrei, secondo molti, ma non ho mai ascoltato le voci dal coro.

Le voglio sinceramente bene. Nella stessa intensa e identica misura in cui le vorrei dare una gomitata se dividessimo il campo. Ogni volta che piega la testa e mette le braccia intorno alla vita, lo so che mi disapprova e io potrei odiarla, per un po’, per questo. Ma anche amarla. Perché sono la stessa donna, per quanto possa a volte sembrare strano anche a me, loro sono lei.

Ci sono anche altre giocatrici brasiliane che quando tornano oltremare, s’impegnano quasi allo stesso modo. Raccontano la loro storia in radio, televisione. Generando interesse perché esiste una genuina curiosità per queste storie di vita e di sport. Ambasciatrici di qualcosa di più grande di un semplice gol, di un dribbling o di una rovesciata.

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