Il terrore del fallimento

Giannis Antetokounmpo e i suoi Bucks, migliore squadra della regular season, due anni fa alzavano il trofeo di campioni NBA, escono oggi al primo turno dei playoff. Squadra quella di Giannis che è stata la migliore della regular season e domina dal 2019 la sua division.

Uscire al primo turno dei playoff è un fallimento.
Spoiler: lo è. Parola di Shaquille Rashaun O’Neal.

Antetokounmpo nella conferenza stampa post partita argomenta la questione, in maniera differente. Sostiene che non vincere non è un fallimento, peccato che la domanda sia differente: “uscire al primo turno dei playoff per questa squadra è un fallimento?”

Le sue parole diventano virali. In una sorta di distorta giustificazione al fallimento, come se all’improvviso fallire non fosse un accidenti negativo al quale porre rimedio. La giustificazione a qualsiasi mancanza. Una sorta di “fallisco perché è normale” e quindi “non faccio nulla tanto fallire è normale”.

Questa è una società globale nella quale esiste un diffusore terrore del fallimento e una fobia della parola. Quasi trasmettesse una sorta di stigma capace d’incollarsi alla persona. Come se il fallimento sia una irreversibile condizione, una perenne condanna. Il fallimento come valore assoluto, che non ha grado, non ha livelli.

Possiamo asserire che uscire al primo turno dei playoff o perdere a gara sette della finale, costituiscano differenti tipi di fallimento. Sono due fallimenti, continuerò a ripetere questa parola più volte perché non ne ho paura e nessuno dovrebbe averne, profondamente diversi.

Essere sconfitti al primo turno è un tipo di fallimento che richiede un cambio d’approccio al problema. La sconfitta in gara sette è quel genere di fallimento che invece richiede un semplice aggiustamento.

Però siamo terrorizzati dalla parola fallimento, fallito e le sue accezioni derivate. Ho fallito, rumorosamente e in quella occasione era un fallito. Sono parole durissime quando le ascoltiamo e ancora più feroci quando ce le diciamo. Se non facessero così male non richiederebbe un cambiamento.

Forse però, posso prendere a prestito le parole di Julio Velasco. Per raccontare che il fallimento non è perenne, non costituisce una condizione, una afflizione.  Dobbiamo imparare a perdere, a non cercare alibi. Liberandoci da una cultura che ci induce a trovare una ragione altra da noi stessi per le sconfitte. Ho fallito perché ho sbagliato, a fidarmi, ad affidarmi, a credere. Le ragioni dei fallimenti non possono transitare prima dall’esterno.

Capita nello sport che l’avversario sia più forte. Punto e basta. Perdere è fallire, ma questo non vuol dire che sei una merda. Abbiamo creato un un mondo che si divide in vincenti e perdenti quando invece si dovrebbe dividere soprattutto tra brave e cattive persone. Poi tra i vincenti ci sono anche delle cattive persone e purtroppo tra i perdenti ci sono delle brave persone.

Non c’è motivo d’aver timore delle parole ma delle cattive persone.

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