Nel futsal come nel calcio, vincere è una questione d’investimento. Il PSG era un club della periferia calcistica francese prima che arrivassero i petroldollari, così come il City era la seconda squadra di Manchester. A parte qualche eclatante caso di società meglio organizzate. L’ultimo Borussia Dortmund, per esempio, fedele ad automatismi, a criteri scientifici di rendimento e modelli di assoluta meritocrazia gestionale.
Ribadendo che la natura dilettantistica del futsal impedisce in Italia di generare ricavi o utili che siano funzionali quantomeno a sostenere una parte degli investimenti, ci sono alcuni lezioni da trarre nell’esaminare i fatti alla base della mistica blancos.
In entrambi i casi, in campo nazionale, la forza economica permette ad un club di vincere, alterando al rialzo i valori d’acquisto fino a ritrovarsi in posizione egemonica. Tuttavia a molti di questi club sembra sfuggire la Coppa dei Campioni come fosse un Sacro Graal.
C’è un solo club capace di trovare il Graal del calcio con inquietante periodicità: il Real Madrid. Sebbene in molti credano che il potere economico dei blancos sia quasi un derivato statale, l’egemonia della squadra è iniziata quando Madrid non era che un sobborgo polveroso frequentato da oscuri funzionari.
Nel futsal basta osservare la composizione delle Final Four di Futsal Champions League per avere l’elenco di questi piccoli emuli dei blancos a rimbalzo controllato. Sono quattro nomi e spolier, dominano da sempre e quando non lo fanno ci vanno dannatamente vicini.
Si è trattata di una congiunzione di genio calcistico, quello di Di Stefano e imprenditoriale quello di Santiago Bernabeu a creare Il Real Madrid che oggi conosciamo. Com’è stato possibile conservare nel tempo questa risorsa? Spolier: il Real Madrid ha passato 30 anni senza vincere la Coppa dei Campioni.
Al netto di elucubrazioni per menti semplici che coinvolgono parole come mistica e blasone, la ragione di questa capacità di perpetrare il successo è la modernità del Real Madrid. Esiste il fondato sospetto che il successo madridista sia dovuto alla sua totale aderenza al modernismo.
Non ha mai fatto concessioni all’identità: che fosse etnica, sociologica, ideologica. Don Santiago, conservatore di ferro, quando aprì il club non osò esserlo. Si aprì al talento straniero ovunque eccellesse.
Favorì una proiezione internazionale senza legacci localisti. Il madridismo non è mai stato un madrilenismo. La globalità oltre il nazionalismo, il successo cannibale senza ingerenze sentimentalistiche, la trasversalità ideologica. Qui risiede una parte del mistero blanco.
In questi stessi elementi si trovano le ragioni del fallimento di club come Benfica e Inter che agli albori della Coppa dei Campioni battagliavano in prima linea per i successi continentali e ora sono rilegate nelle retrovie.
Il Madrid, inoltre, vince contro l’estetica e contro l’etica. In tempi di idolatria stilistica, con il calcio che si gioca più per sviluppare spettacoli seducenti che per andare in porta, l’anarchia vichinga si impossessa di stendardi e va avanti con la sua dottrina di urla di guerra e gol inaspettati, frutto di genio individuale e disciplina tattica da cortile di collegio. Il Real Madrid non è una confraternita di benefattori. Il suo gioco non è una questione di pace e armonia universale.
È invece una questione di segnare più gol dell’avversario. Essere il migliore non è facile ed è proprio per questo che la grandezza del Real Madrid è un caso che merita di essere indagato. Alcune pratiche sportivo-economiche sono altamente scalabili, si applicano cioè a discipline sportive minori.
Solo quelle però, capaci di liberarsi di una legislazione che ne impedisce di fatto lo sviluppo, oltre il confine del piccolo cortile locale. Uno sport come il futsal, privato di uno spazio di sviluppo, è destinato a restare confinato alla periferia dei grandi centri. Alla ricerca di mercati nei quali la professionalizzazione di altri sport non è ancora giunta. Condannato ad una lenta anossia.