I campioni fragili

“Chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro”

In una epoca d’estrema esposizione, di vetrine digitali e di vite sintetiche abbiamo, tutti soprattutto i più vecchi, dimenticato quando siano fragile non solo le nostre di vite ma anche quelle degli altri. Quante volte avete inveito contro un giocatore, accorpando in un’unica entità l’uomo o la donna alla prestazione sportiva dell’atleta. Quanti post di Wanda Nara e Mauro Icardi avete commentato?

Quando il futsal si racconta come uno sport che vuole diventare grande mi chiedo se sia psicologicamente pronto, se sia mentalmente maturo. Perché se l’attacco di panico di Wojciech Szczęsny nel bel mezzo di un quarto di finale di Coppa non è un allarme, sarà impossibile comprendere la tragedia di Julia Ituma ad Istanbul.

Appartengo a quel gruppo di persone che ha inventato e poi perpetrato la pratica del “flame” per indicare i litigi furiosi online. In pochi però siamo riusciti a separare la nostra presenza online da quella reale. Siamo esseri umani, intrinsecamente modellati da una società alla quale chiediamo di volerci bene. Lo chiediamo a tutti, proprio a tutti. Ci rivolgiamo anche a quelli che ci odiano anzi, spesso non riusciamo che a focalizzarci su di loro.

Lo sport professionistico, diventato letteralmente spettacolo di varietà ha nutrito la macchina vorace dell’intrattenimento con qualsiasi accadimento anche con i più frivoli. Esponendo così, giovanissimi atleti al giudizio feroce e al livore di persone che anche solo vent’anni fa non riuscivano nemmeno a trovare il pulsante d’accensione del computer. Ora hanno accesso alle vite private di tutti.

Abbiamo un giudizio morale senza appello per tutto. Pesiamo le vite degli altri utilizzando una bilancia e gettiamo su uno dei piatti i guadagni degli altri. Più alta la montagna di denaro più ci sentiamo in diritto di giudicare con ferocia. Gli atleti sono i più esposti perché vanno in scena più volte a settimana.

Siamo mossi dal desiderio morboso di veder cadere chi ha successo, questo è però un gestalt tutto italiano, cerchiamo il difetto che ci faccia sentire meno inutili e soli. Seguiamo spesso pedissequamente il paradigma che ci fa sentire autorizzati a urlare di tutto “perché tanto con tutti i soldi che guadagna”. Come se il rancore personale diventasse denaro.

Forse il futsal non è pronto a diventare grande e a ritrovarsi gli spalti pieni di gente che inveisce verso il campo e in direzione della dirigenza. Troppo fragili gli ego, troppo personali taluni rapporti, troppa la voglia d’essere amati, spesso superiore alla voglia di vincere. Se proprio vuole diventare mainstream, il futsal dovrebbe iniziare ad educarsi alla critica.

All’esistenza di persone che non ci vogliono bene, che non apprezzano il nostro lavoro e che un giorno potrebbero pagare il biglietto anche solo per insultarci. Panem et circenses, dicevano nell’antica Roma. Da allora non è cambiato poi molto, pensare che una piccola disciplina riesca dove hanno fallito anche sport “nobili” come il rugby è utopia.

Il futsal però può iniziare con l’insegnare ai propri giovani che perdere una partita non ti rende meno uomo o donna, non diminuisce il tuo valore. Il fallimento accade così spesso da poter essere confuso con un’abitudine ma non lo è. Rappresenta l’inaggirabile ostacolo verso il successo.

Insegnare ai suo atleti a chiedere aiuto se si trovano in un posto della mente così buio da mangiarsi la luce, le parole buone e il futuro. Se avete paura di restare prigionieri di quel luogo, chiedete aiuto. Le lacrime di Szczęsny non sono una vergogna, sono la cifra meravigliosa dell’uomo.

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