Il commissariamento degli arbitri

Lo sport agonistico, tutto, ha la necessità di avere degli arbitri. Qualcuno con l’incarico di far rispettare le regole. Una specie di sceriffo, perché il campo di gara assomiglia sempre al selvaggio west.

Per un pugno di dollari, sul campo si è capaci di tutto. Ineluttabile realtà del calcio quando nel rugby. Non ci sono sport nobili, perché non lo sono gli essere umani. È l’anossia, dello sforzo atletico che non permette di prendere spesso le migliori decisioni possibili.

Così ci si affida a individui con la canotta variopinta. Ogni domenica, scelgono di farsi insultare dallo scemo del villaggio di turno, per permettere alle gare di svolgersi con una parvenza di rispetto delle regole.

Durante la recente Supercoppa di futsal, nella sua versione al maschile, la conduzione di gara, almeno per l’arbitro lato panchina, è stata quantomeno scarsa. Si, scarsa. Come accade per i giocatori, anche tra le giacchette nere (per i millennials, una volta gli arbitri vestivano solo di nero), ci sono quelli bravi e quelli meno bravi.

Gli arbitri arrivano al campo, si scaldano, parlano solo tra di loro, si prendono la loro dose di insulti e vanno via. Spesso assomigliano ad un culto. Non parlano alla stampa, si sa poco o nulla di loro e hanno di sovente, l’atteggiamento di chi non deve dare spiegazioni.

L’Associazione Italiana Arbitri, potrebbe avere avuto sede in passato a Wako, Texas. Un culto davidiano, però casereccio. Capace di far assurgere ed operare da procuratore capo: un trafficante di droga. Si, il D’Onofrio arrestato qualche tempo fa mentre mercanteggiava droga ma riusciva a mantenere il suo incarico al vertice della procura sportiva.

L’AIA opera con dinamiche avvolte da una impenetrabile cortina, così come lo era la fattoria di Mount Carmel, anche li e allora arrivò la polizia (DEA) alla fine. Quando quella protezione però s’incrina, l’immondizia inizia a tracimare.

Anche solo il sospetto, di magheggi, danneggia tutti quegli arbitri, bravi e scarsi, che devono scendere in campo. Perché ad ogni errore, l’ipotesi dalla malafede, diventa più concreta.

Ritornate con me, al palaqualcosa di Genzano. Se la palla esce d’un metro, davanti ai miei occhi, ma l’arbitro era a 5 metri dal pallone, è certamente un errore, da scarsi appunto. Scarsi anche se internazionali. Peggio se quella palla poi finisce in rete.

Se poi non vede un rigore, ho una splendida foto che immortala il portiere di una delle due squadre strattonare vistosamente alle spalle un avversario, a me torna alla mente l’immortale frase di Giulio Andreotti e inizio a pensare male. Conscio di commettere un peccato.

Perché la poca trasparenza, d’un organo fondamentale per il corretto svolgimento dei campionati, il suo essere travolto da uno scandalo senza precedenti, mette in discussione l’esistenza dell’intera struttura.

Se i processi di promozione dell’AIA hanno permesso ad un trafficante di droga di diventare procuratore capo, non può essere particolarmente complesso scalare i vertici della gerarchia arbitrale. Cosa accade poi ai livelli intermedi?

I giocatori professionisti, almeno quelli del calcio, sono misurati da criteri matematici, classifiche di ogni tipo sono pubblicate ovunque. Degli arbitri sappiamo pochissimo. Invece d’essere atleti che praticano una disciplina, ne sono per qualcuno: il “male necessario”.

L’ormai imminente commissariamento dell’AIA è la tangibile prova che i vertici dello sport in Italia, considerano la struttura irrimediabilmente danneggiata, da pratiche fumose quando probabilmente illegali. Si preferisce azzerare tutto, perché forse non c’è nulla da salvare.

Alfredo Trentalange, capo degli arbitri, però confida nella sua profonda fede mariana. In quel miracolo che in qualche modo dovrebbe scagionarlo anche dall’accusa di omessa sorveglianza. Un miracolo che farebbe impallidire anche i pastorelli di Fatima.

Secondo l’accusa Trentalange aveva “la diretta responsabilità delle nomine dei vertici degli organi di giustizia Aia” ed ha poi “omesso di assumere qualsiasi iniziativa, anche la più minimale, volta e finalizzata ad accertare i reali requisiti professionali e di moralità del sig. Rosario D’Onofrio prima della proposta, fatta dallo stesso Trentalange, e conseguente nomina da parte del Comitato Nazionale Aia (nel marzo 2021), a Procuratore arbitrale dell’Aia.

Viene anche accusato di comportamento omissivo, seguito da quello commissivo di proposta, che ha determinato la nomina del D’Onofrio con cui il Trentalange aveva un rapporto personale consolidato di vecchia data. Era stato infatti lui a segnalarlo al Presidente Nicchi al fine della nomina a componente della Commissione Disciplinare Nazionale il 7 marzo 2009, primo incarico avuto dal D’Onofrio in un Organo di giustizia sportiva.

La Lega di A aveva chiesto una commissione d’inchiesta. Trentalange e la governance del calcio si sono trincerati su un linea del Piave e non intendono cedere. Si tenta di salvare almeno la moralità di una classe arbitrale, tradita dai suoi vertici e dalle pratiche indecenti utilizzate negli anni. Forse però cercano solo di salvare loro stessi.

Quando Gravina loda la velocità del processi giudiziari federali, lo fa con un piglio che ricorda tanto un ayatollah iraniano, uno a caso sceglietelo voi. Da quando in un paese civile i processi sommari eseguiti seguendo un ordinamento sportivo che assomiglia più a qualcosa che potrebbe aver scritto Roland Freisler, sono degni di lode?

Il quindici dicembre 2022 è ormai imminente. Termine ultimo imposto da Gravina prima di utilizzare l’arma termonucleare sull’Associazione Italiana Arbitri. Trentalange non ci sta, cerca aiuto sull’altra sponda del Tevere e prova a resistere nel suo bunker.

Nel mentre le carte si accumulano, indecenti e devastanti. Gli uffici di via Allegri sfornano imbarazzanti documentazioni come un vaso di pandora. Gravina indicando quella data, prova a metterci un coperchio.

Si tratta di ruscire ad insabbiare un procedimento nel quale la Procura Figc accusa il Presidente degli Arbitri di: “aver contattato telefonicamente il vicepresidente della Commissione Disciplinare Nazionale Andrea Santoni. Il quale, riscontrando negligenza ed inadeguatezza professionale in capo al D’Onofrio quale componente della predetta Commissione, aveva invitato quest’ultimo per iscritto a tenere comportamenti più consoni alle funzioni svolte.

Chiedendogli di non assumere nuove iniziative contro Rosario D’Onofrio, e così facendo per proteggere il D’Onofrio, al quale era evidentemente legato da consolidato rapporto personale interferiva con l’attività, le prerogative, l’autonomia e l’indipendenza di un Organo di giustizia sportiva”

La credibilità è una merce difficile da acquistare e facile da perdere. Oggi uno sport muore perché dagli spalti ad un arbitro non si urla più scarso ma ladro, perché la disonestà di uno, colpisce tutti. Quando il dubbio sfocia sempre in malafede, quando le regole sono uguali per tutti, tranne che per alcuni, la passione cerca una nuova dimora.

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