La chiave è l’inclusione

Sono un maschio caucasico, eterosessuale. Allo stesso gruppo appartengono molti dei soggetti che detengono posizione di potere economico, politico e anche sportivo. Si tratta di una lobby, anche potente. Una corporazione che condivide intenti silenti e ideali simili.
Ieri, con un lunghissimo articolo Miles Jacobson, l’amministratore delegato di Sports Interactive, il papà di Football Manager, s’è scartato da questo gruppo. Ha dichiarato che nel più venduto videogame manageriale di calcio sarà possibile allenare le squadre femminili.

 “C’è una cappa di vetro intorno al calcio femminile, spero di contribuire a infrangerlo, per permettere loro di raggiungere il cielo.” Inclusione, la parola che vuol dire integrazione, riconoscimento, dignità. Non un serraglio nel quale rinchiudere le giocatrici, declinato al femminile, per distinguerle dai giocatori, gli uomini: maschi. Jacobson non si ferma qui. “Sarà un investimento di milioni di dollari, completamente in perdita, non c’è nessuna ragione finanziaria, solo un dovere morale.”

In un passato recente, si combatteva per ragioni morali, ci si batteva per i diritti, non ci spaventavamo così facilmente, non passavamo il tempo a batterci il petto, guardavamo alle stelle. Oggi, un eterosessuale maschio caucasico, riconosce al calcio femminile uguale dignità, con un impegno personale non solo finanziario ma anche e soprattutto morale, s’impegna in una battaglia, decisiva. Non dovrebbe essere una notizia e invece lo è.

C’è una realtà intorno a noi che racconta una storia anche sportiva, complessa. Narrata da presidenti uomini, dirigenti uomini, allenatori uomini e giocatori donna. Spesso si preferisce ignorare questa situazione di fatto, rivolgendo l’attenzione a una discriminazione di genere che ha radici culturali profonde, in taluni aspetti perfino legislative.

V’è mai capitato di giocare contro una donna? In una partita a qualsiasi gioco, sport. Non è un avversario, almeno fino a quando non vi salta di netto in dribbling e allora siete costretti a fare fallo, a trattarla come un giocatore. Non è un compagno di squadra fino al momento in cui mette la palla al volo di sinistro sotto il sette. Allora smette di essere Francesca, Barbara, Valeria. Diventa un giocatore, un vostro compagno, per la vita. Non importa più che indossi un reggiseno sportivo.

Siamo fatti così, semplici creature con un cromosoma diverso. Stessa specie. In questa immensa semplicità morale ed emotiva, ho avuto anche la ventura di essere dall’altra parte di quel confine tracciato da una serie di luoghi comuni, legati al sesso. Vi racconto una storia, potreste non credermi, ma c’è chi può garantire per le mie parole. Io non mi fido più della sua di parola ma forse voi, lo fate ancora.

Sono stato Miriael, il miglior giocatore donna del “game”, per circa otto anni. Credo esista ancora un profilo Facebook di questa identità fittizia ma perfettamente credibile. L’ho fatto, almeno nella fase iniziale, perché alle donne gli uomini perdonano tutto, quando sono chiaramente più scarse di loro. Quando hanno bisogno di essere aiutate, supportate per immaginarie mancanze o tollerate nel mezzo di tempeste ormonali. Nel momento in cui la mia abilità di coordinazione occhio mano, le capacità di interpretare le situazioni, i tempi di reazione m’hanno catapultato all’apice del la mia classe (ruolo) ecco la frase che m’ha fatto infuriare allora e lo fa ancora oggi.

“Sei il miglior giocatore donna del game”. No, dannazione no. Sono il miglior giocatore e basta, perché il mio genere dovrebbe includermi in una categoria a parte. Ho guadagnato il vostro rispetto perché posso giocare, perché sono il migliore nel fare questa cosa. CI sono più donne nella nostra gilda che giocano a questo livello, perché ora sapete che possono giocare, avete concesso loro una chances quando avete incluso qualcuno sulla base delle sue abilità.

Uomini, semplici creature. Nel rispettare la vittoria ad ogni costo, non importa come e con chi. Non serve agli occhi di un uomo come me che vi rinchiudiate in un serraglio per mostrarci che potete giocare, venite a farlo con noi e contro di noi. Vi guadagnerete il rispetto, diventando un fratello. Siamo semplici e se ci fate vincere, siete una di noi. Dove è possibile accade già. Dove è possibile schierare squadre miste, voi ci siete, sempre.

C’è ancora un mondo di persone pronte a discriminarvi, insultarvi, giudicarvi e condannarvi per il vostro patrimonio genetico, la vostra fisiologia, la vostra identità sessuale, le vostre scelte morali. Esiste però enorme, un universo silente che aspetta solo di giocare contro di voi o con voi per poi poter dire: “Ilaria può giocare”. Com’è accaduto qualche anno fa quando Ilaria Adami fu convocata con la nazionale di football americano maschile.

Li ricordo ancora i cavernicoli del football americano italico, partecipare allo spettacolo dei pagliacci sgrammaticati al grido: “le donne non possono giocare”. Per ognuno di loro c’è un Mauro, un Miles e chissà quanti altri nomi. A cui importa vincere, disposti ad aiutarvi a infrangere quella cappa di vetro, nella quale altri vi hanno rinchiuso. Lì, in quello spazio trasparente, molte di voi restano convinte che non serva convincere “noi”, per avere uguali diritti.
Vi sbagliate. Sono dei maschi caucasici eterosessuali a tenere i cordoni della borsa, a serrare i cancelli che vorreste vedere aperti. Siamo noi quelle che vi discriminano, siamo noi quelli che devono essere convinti, non altre donne.

L’allenatore donna che insegna ai bimbi il gioco del calcio, non fornisce loro solo nozioni tecniche. Offre loro l’esempio tangibile che la discriminazione è una questione di ignoranza. Con buona pace di tutti i Criscitiello del mondo e della sua casa del futsal. Mister Aida, Mister Ersilia. Li ho visti i bimbi scegliere quale mister avere in squadra alla prima partitella. Scelgono il mister maschio, perché è più forte, nella loro mente semplice, riempita di convenzioni. Quando poi scoprono che le altre due appartengono ad una categoria di calciatore diverso, alla domanda: “che mister volte in squadra?”, risponderanno: “Mister Aida, Mister Ersilia”.

Kids shooting on football station

Vogliamo vincere, nella competizione sportiva. In quel microcosmo che è la squadra, non c’importa davvero chi siete, ma solo se potete giocare. Giocate con noi, contro di noi, ma giocate. Non dovete essere coraggiose voi, dobbiamo esserlo noi. Darvi una possibilità di stupirci e poi dimenticare che questo stupore esiste, perché s’è trasformato in normalità.
Vi voglio bene, nonostante tutto.

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