Settantadue ore dopo. Comprendo d’aver assistito ad un ad un evento possibile, per quanto altamente improbabile.
La vittoria casalinga del Pescara Femminile, in gara uno della finale scudetto, era quotata più o meno come: “Pentola piena di monete d’oro alla fine dell’arcobaleno”.
Questo non ne sminuisce l’importanza. Ne rimarca anzi, la straordinarietà. Probabilmente anche la volubilità e imprevedibilità, del business sportivo. Business, in senso lato ovviamente. Nel futsal giova sempre ricordarlo, esiste una colonna spese e una ricavi, la seconda è lì però, solo per bellezza.
Il pallone è rotondo. Non me n’ero accorto. Tuttavia resta un oggetto inanimato, al quale vengono applicati vettori di forza, che ne indirizzano traiettoria e moto. In una realtà regolata da leggi fisiche, nessuna di queste si identifica con la parola fortuna.
Perché se davvero esistesse la fortuna, non avrebbe senso comprare i migliori giocatori. Perché se l’elemento causale (fortuna) è così determinante, due piedi di ghisa hanno la stessa probabilità di segnare di due piedi “vellutati”. Per uscire però dal ginepraio dei luoghi comuni, ripropongo una riflessione di Massimiliano Allegri: “C’è una ragione se nel gabbione (di Livorno) vincono sempre gli stessi.”
“Perché sono i migliori.”
Non i più forti, qualsiasi cosa questo voglia dire. I migliori, in quel preciso momento, in quell’istante. Le partite, di futsal o di qualsiasi altro sport, sono un susseguirsi di istanti. Un moto ondoso in aumento, d’emozioni che si mischiano a condizione atletica e tecnica.
Le finali soprattutto, mi attirano per la loro irripetibile unicità. Per la naturale abilità di essere presente volubile e passato inappellabile, nel rincorrersi dei secondi. Capaci di lasciare i protagonisti con rammarico anche se alzano un trofeo. La vittoria è un brevissimo istante di felicità. Tutto il resto è mancanza, rincorsa e fame di vittoria.
La natura familiare dell’ambiente del futsal, permette spesso l’incastro di vite. Ci si conosce tutti, più o meno. Una grande famiglia meravigliosamente e giustamente disfunzionale. Poca avvezza a sentirsi criticata, spesso incapace a separare la prestazione in campo da tutto il resto della vita, fuori.
Vincere non rende nessuno un miglior essere umano, spesso accade l’esatto contrario. Non m’interessa davvero il risultato. In questa, come in altre serie finali, io cercherò una storia. Tristemente cosciente, che a prescindere dall’epilogo, ci saranno donne, alle quali sono sinceramente affezionato che piangeranno. Qualcuna verserà lacrime di felicità, altre frutto del dolore sordo della sconfitta.
Dicono: “una partita alla volta”, “una azione alla volta”. Perché non raccontano mai che invece spesso, chi compete si ritrova in realtà nella condizione di dover correre incontro ad un muro di solido cemento. Come entrare in acqua con il mare in tempesta. Sai che sarai travolto dalle onde, ma ci provi ugualmente.
Perché dentro di te, sai di essere meglio di come ti raccontano. Che non puoi essere brutto così, che non può succedere ancora, oppure che puoi ripeterti. La prima finale, di una serie, resta sempre la migliore. Nessuno piange e per me è già un risultato.
In archivio una partita che dovrebbe ricordare a tutti, che alla fine c’è un solo vincitore e chi vince, non è mai simpatico. A nessuno.