Non è una questione di nazionalità

L’Italia è incurabilmente affetta dal suo passato. Spesso avvolto da una gloria che trascende, i reali valori di una vittoria. Accade così che nel calcio, dopo l’infausta eliminazione dalla corsa al mondiale di calcio in Qatar ad opera della Macedonia del Nord, s’inneggi a soluzioni draconiane.

Com’è accaduto per il calcetto a cinque, sono spuntati come ramaccia, quelli disposti a spazzare tutto. Promotori di un ritorno all’autarchia, inneggiando al retorico e consunto: “si stava meglio, quando si stava peggio.”

Nel calcio professionistico la struttura giuridica, impedirà la sventura di un protezionismo che è l’antitesi del libero mercato. L’hanno capito anche i comunisti cinesi, che la soluzione è il mercato libero, ma non chi vuol orientare il calcio nazionale verso un fasto irripetibile.

C’è bisogno d’affidarsi non agli umori, ma alle professionalità. Nel calcio a cinque italiano s’è scelta la prima strada, nel calcio invece, dove il profitto è uno dei pilastri fondanti dello spettacolo calcistico, s’è deciso prima d’esaminare i dati.

Si scopre così, grazie al rapporto settimanale del CIES Football Observatory, che in Italia, i giocatori con meno di ventuno anni, vengono impiegati nella Serie A, per il 3,9% dei minuti nelle 536 partite disputate. Nella Serie B italiana non va molto meglio: 4.9 per cento.

Non è quindi una questione di nazionalità, ma di giovani. Così come nel calcio a 5, si preferisce l’usato sicuro, il percepito campione, sul viale del tramonto. Perché? Le ragioni possono essere molteplici. Dal personalismo di un presidente che vuol mostrare d’aver acquistato un campione. Fino all’inadeguatezza strutturale, che rende impossibile crescere nuovi talenti.

Se non ho la struttura professionale per crearli quei talenti, per crescerli, li compro già pronti. Casomai un po’ stagionati. Accade così che altri campionati diventano serbatoio di talenti. Donatori d’organi per i ricchi club anche di Premier League inglese, 4,4% di under 21 impiegati.

In Eeredivisie (la Serie A olandese) giocano il 10,9 per cento di under 21. La Pro League belga, la “birretta league” perché lo sponsor è un noto brand di alcolici, è al 10%. Brasileirão al 9.9; Liga Profesional Argentina 9.1 e così via fino alla Ligue 1 francese al 9.1%.

Non è che i giovani italiani non ci siano, oppure abbiano smesso di avere talento. Probabilmente sono numericamente più esigui. Rispetto ad un passato che era socialmente e demograficamente, profondamente diverso da questo presente.

Forse, ci ostiniamo a guardare la punta dei nostri piedi, invece d’alzare lo sguardo, e rivolgerlo altrove. Viaggiare ad esempio fino a Volendam, sul lago Ijsselmeer. In uno di quei villaggi di pescatori tipicamente olandesi, dove il tempo s’è fermato, anche quello meteorologico.

Tra gli zoccoli, la nebbia fitta che se esci con una tipa scopri che faccia ha dopo il primo figlio, le reti da pesca e i ciottoli fastidiosi, c’è un piccolo stadio, il Kras. Lì la squadra locale si batte nella Eerste Divisie, la serie B olandese.

A deliziare con le sue giocate, il pubblico infreddolito sugli spalti, con indosso la maglia numero dieci c’è Gaetano Oristanio. Italianissimo prodotto del vivaio dell’Inter. In quella squadra, c’è anche il suo ex compagno di primavera Filip, a difendere i pali della porta. Dimenticavo, il suo cognome è Stankovic. Si, il figlio di Dejan. Nella rosa, un americano, 4 inglesi e un ragazzo delle ex colonie olandesi.

Il calcio non ha confini, li ignora e poi li abbatte. È di tutti, ma di nessuno. Così come il talento, che qualcuno pensa di poter trovare per caso, altri di chiudere in gabbia. Questo è un tempo diverso, nuovo. Le soluzioni vecchie, che odorano di muffa e paura, sono destinate a fallire.

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