Mana

Questa storia, inizia in un punto indistinto d’un passato recente. Nell’intervallo di lettere sullo schermo, di quelle che forse sono semplicemente convenevoli e poi mutano in qualcosa di completamente diverso.

MI sono chiesto e continuo a farlo, oggi, com’è possibile avere quel cuore, com’è che possibile che tu ti stia preoccupando del mio cuore, quando il tuo è appena andato in pezzi.
Le nostre conversazioni iniziano con un “Come stai?”.

Non ho mai percepito però in quella domanda della retorica. Che fosse un vuoto riflesso di cortesia. Ho scoperto che le importa davvero. Voglio capire perché, devo poter comprendere la donna dentro il giocatore.

Quella che vedo in campo, è un esercizio di straordinaria semplicità. Di cui sono capaci sono i grandi artisti, come Banksy. Un murales, un disegno semplice. Del quale non potevo nemmeno immaginare l’esistenza, prima che lui me lo mostrasse. Un messaggio che non ero capace di raccontare prima, d’ammirare la sua arte.

Provo a ripercorrere all’indietro la strada, spesso polverosa che l’ha portata qui, ad un passo da me, da noi. Fino alla maglia verdeoro, quella della nazionale “vera”, quella ufficiale. “Perché le altre erano finte?”, mi chiede sempre con un tono misto di rimprovero e consapevolezza.

La responsabilità di essere una nazionale con meno possibilità, meno tempo a disposizione, più talento forse, costretto però in uno spazio più angusto. Forzato dalle circostanze a contare troppo spesso sugli individui, come gruppo.

Mi sorprendo alle sue risposte, anche se non dovrei. “Com’è essere te?”, le chiedo.
“Prendo il vino”, quello che ha il sapore del ferro e quindi del sangue. Quello che arriva da un posto che somiglia più alla sua terra natale di quanto forse, riesca ad immaginare.

Essere lei è essere generosi. È riuscire a rendere straordinaria la prestazione sportiva personale, in funzione di quella della squadra. Accettare l’errore, come prodotto talvolta inevitabile del tentativo di concretizzare la migliore giocata possibile.

Giocare in funzione del momento. Qualcuno una volta ha detto: “Amo questo gioco perché ti ci puoi perdere dentro. Devi semplicemente reagire.” Lei è intrecciata a queste parole, incontrate per caso, in un tempo diverso da questo.

Assumersi la responsabilità, quella di vincere e di proteggere la sua squadra. Questa è lei, attraverso le parole più semplici, quelle che lei ama di più. La costanza di ripetersi, moltiplicarsi e poi diversi ancora, sul campo.

“Ho puntato su me stessa”.
Tutte le fiches della vita. In una sola giocata. In una età in cui sei un bambino o una bambina e ti preoccupi dei tuoi giocattoli e non del tuo futuro. La responsabilità inizia così, con il rispetto della fatica degli altri, con l’essere una piccola donna, prima.
Perché nessuno ti prepara la colazione, ma qualcuno t’ha messo il cibo sulla tavola.

“Ho riposto il dolore in un posto nel quale, ogni tanto, fa meno male”
Quello che abbiamo perso, quel continuo dolore che s’aggrappa alla voce e la fa tremare. S’aggrappa ai pensieri e li fa sparire. S’insinua negli occhi e li fa lacrimare. Perché lui non vedrà la maglia verdeoro, di nuovo sulle tue spalle. Non potrà più, essere orgoglioso di te.

“Tu, come stai?”
L’ha chiesto davvero, nel mezzo del suo di dolore.
“Così così”, rispondo e m’accorgo che la mia voce s’è piegata in un sussurro.

“Non va bene, così così”
S’è preoccupata e poi ha deciso di occuparsi, di me. Quando la prossima volta, dagli spalti l’ammirerete giocare, provate a prestare attenzione alla sua generosità. Alla sua capacità di fare quello che è meglio per gli altri, anche se non è a suo personale beneficio.

Sarete così capaci di comprendere che è in quel suo passaggio sbagliato, la sua straordinarietà. Risiede in quei rari errori, che ne manifestano la normalità. Una diversa, però, fuori dal comune. Qualcosa che cresce dentro, solo se non hai nessuna altra scelta.

“Muck City”
Le mucche, le rane, i campi, le strade sterrate.
La vita semplice, perché condotta attraverso i suoi elementi essenziali. Scandite da ritmi lontani, nello spazio e nel tempo. Le canne da zucchero, nel sud della Florida, i campi d’argilla delle piane del sud America. Quando la strada che puoi percorrere porta solo, lontano da li.

“Casa”
Diventa quel luogo, del quale conosci il barista, il panettiere e puoi raggiungere anche a piedi il supermercato. È quel posto che diventa familiare solo quando ti fermi sul ciglio d’un marciapiede e ti chiedi: “Questa è casa?”

C’è quella casa dove ci sono i tuoi fratelli, la tua mamma. Nella quale però non ti riconosci più davvero, non fino in fondo. In un posto immobile nel tempo, bellissimo per questo ma non è più il tuo. Non ti senti cambiata, eppure lo sei.
T’hanno trasformata gli accidenti di vita.

Casa è anche quel posto, nel quale t’hanno aiutata a diventare il giocatore che sei. Loro però continuano ad amare la donna, la persona e la sua trasformazione. Risuona spesso quel nome, quel luogo speciale per te: Chapecò.

La nostalgia si mescola alla riconoscenza, come quel vino nel tuo bicchiere. Quello che hai comprato appositamente, perché “non è possibile bere il vino nei bicchieri per il succo”.
Odora di quell’amore che non puoi riconoscerlo se non l’hai provato. Non è venerazione, è affetto. A prescindere che tu sappia calciare un pallone di sinistro sotto la traversa.

Ridiamo, spesso.
Perché la vita sebbene sia punteggiata da quelli che sembrano interminabili attimi di sofferenza, è anche questo. C’è da scambiarsi i ricordi come doni. Anche quelli che iniziano con: “però questa è una cosa personale”.
Le donne le devi far ridere no?, a piangere sono bravissime da sole.

Scelgo dal mazzo dei tuoi mille futuri possibili, questo.
Sei nel parco, quello che c’è dietro casa mia. Con il campetto ricavato tra quattro alberi a fare da porta. Le reti da pesca stesi tra i pini, che odorano di mare e grida di bimbi.

Sei di spalle, stranamente abbigliata da donna, con la gonna proprio. Di quelle strette a tubino, tipo tailleur delle donne in carriera. Ci sono dei bimbi davanti a te, giocano a calcio.
Sei in silenzio, muovi solo la testa come se quello che accade sul quel campo di terra e erba spaurita, sia la tua partita.

Il pallone è colpito a caso, rimbalza impazzito come in un flipper. Il vociare dei bimbi ha un volume altamente variabile, s’alza in prossimità della porta, s’inabissa a centrocampo.

Un tiro, una respinta e il pallone ruzzola nella tua direzione. Hai quelle improbabili scarpe con il tacco, lucide, nere. Del colore degli scarpini classici da calciatore. Colpo sotto, la palla s’alza leggermente, la controlli in palleggio e poi a terra con la suola.

Uno dei bimbi s’avvicina e allarga le braccia, per chiederti il pallone. Prova a prenderlo e tu, con un gesto rapido, lo sposti sull’altro piede. Poi ancora e ancora. Quando t’accorgi che le lacrime hanno riempito i suoi occhi, t’abbassi e gli consegni il pallone tra le mani.

“È la tua mamma?”, una voce sposta quella domanda nella tua direzione.
“Si”, qualcuno risponde con un sorriso. Di quelli che ti fanno sentire meno sbagliata, forse davvero felice. Come se ogni desiderio della vita si potesse davvero racchiudere in quell’unico istante.

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