Federica Belli, la conosco in maniera approssimativa come giocatore.
Laterale, italiana, vagamente capace nel gioco del futsal. Almeno per quel poco che posso capirne io.
Gara uno, scritta così con le lettere. Finale Scudetto.
La vedo andare dal dischetto. Squadra sotto di un gol. Dov’è che ho visto dipanarsi una storia simile?
PalaRoma. Supercoppa. Antonia con il pallone sotto il braccio percorre tutta la lunghezza del campo, sistema il pallone sul dischetto e scarica una bordata imprendibile in rete.
Obdulio Varela. Brasile contro Uruguay, quando la Coppa del Mondo si chiamava ancora Coppa Rimet.
Le storie di sport sono così, tutte. S’intrecciano alla vita, la cambiano per sempre perché parlano alle nostre emozioni.
Guardo questa giovane donne, posizionare il pallone sul dischetto e realizzo che non ho davvero idea di chi sia. Non m’interessa però conoscere Belli, quella la vedono in tanti sul campo, non quella delle interviste. M’interessa scoprire chi è Federica. Da dove viene? Qual è la sua storia e avrà voglia di raccontarla?
Ci sono gli incontri casuali, quelli meno, quelli che realizzi in un bar. Quello con una buonissima crostatina al cioccolato e che usa la nutella per farcire generosamente i cornetti. Dietro al bancone, spesso c’è la sorella di Marco, quella piccola. La connessione è adatta anche al gaming, i tavoli sono grandi e insomma, caffè corretto è nato li.
Il punto di partenza di questo viaggio è Palermo. Quella città che sembra stretta tra il mare e il calore della sua terra ma finisce con l’essere prigioniera anche dei suoi vicoli e dei suoi vizi. Non mancano mai i campetti, anche quelli improvvisati. Se vi guardate intorno, forse ne potete scorgere uno.
Le partite giocate con i maschi, fino a quando non si può più.
Però i sogni sono così, ti si conficcano nel cuore e talvolta ti scappano via dagli occhi. Posso disegnare la voce di Federica, tratteggiare i suoi occhi ma quando provo a collegare i punti, tropo anche le spine. Come i cactus, quelli siciliani. Il sud, battuto dal sole, quello poi però te lo porti dentro.
Provo a portala a spasso tra i miei ricordi, perché vorrei che lei mi portasse a fare un giro in mezzo ai suoi. Troviamo in comune, in questo mazzo di ricordi sul tavolo, partenze e poi arrivi. Quei viaggi che ti cambiano la vita, la nebbia e il pallone. Parliamo di fiducia, quella che t’arriva dai tuoi compagni di squadra, quelli con i quali condividi il campo. Si stringono legami, maturati nel mezzo della fatica, quando anche un solo errore può vanificare i sacrifici di una lunghissima stagione.
Le chiedo dei rigori. Quelli sbagliati, li ricorda. Con un pizzico d’orgoglio aggiunge, forse perché sono pochi. Le suggerisco: “forse perché fanno più male.”
Cerco d’immaginarla bambina, in mezzo ai suoi coetanei, giocare inseguendo semplicemente la palla. C’è qualcosa di particolare, quasi mistico nella capacità di vivere il momento. Dentro all’istante.
Il futuro sembra sempre troppo lontano, la vita troppo veloce. C’è il lavoro, gli impegni e quell’attimo da concedersi su quello scoglio perso nel mezzo del Mediterraneo. Resta ad aleggiare nei miei pensieri una parola che le ho sentito ripetere spesso: Fiducia.
La parola fiducia più che esplicitare nasconde. Parla di un concetto sfuggente, dai confini particolarmente sfumati. Fedeltà, colui di cui mi fido, perfino federazione, fidejussione e fidanzamento hanno la stessa radice.
Quella che spesso non arriva dalla panchina, non arriva dagli spalti, la devi cercare dentro di te e quando può capitare di perderla, si smarrisce la via. Ci si perde in quell’instante infinito come in un eterno sonno rem. Il rumore della palla che impatta il palo, il rigore sbagliato fa ripartire il viaggio. La ricerca di colui di cui mi fido.