Giocare è una cosa seria

Parlo di videogames. Ma anche di calcio a 5.
In tribuna ci sono i tifosi speciali di Manuela. Si, li ho dovuto chiedere per l’ennesima volta i nomi, di tutti. Vittoria e Mattia. A quanto pare Mattia balla, nel senso competitivo del termine. Vittoria vuol diventare una fashion blogger.

C’è una linea di sole che attraversa il campo, rimbalza e si sparge sugli spalti. Gli spogliatoi hanno le porte aperte e contengono borsoni fatti a caso. Le conversazioni, prima della partita sono tutte secche, monosillabiche quasi.
Domenica, la tuta e la felpa del Lucca Comics and Games.

Non ho mai visto giocare mia madre a calcio, con l’UPIM e nemmeno mio padre ai campionati militari. Vorrei chiedere a loro due, com’è “questa cosa della mamma che gioca a pallone”. Alla prossima volta. Vorrei riuscire anche a fare la stessa domanda quando saranno più grandi.

Se mi servisse mai una ragione per andare a rischiare la vita, lungo la linea laterale di una partita di Serie C, potrebbe essere il viso stupito dei due bimbi. Quando ho chiesto loro: “avete scaricato l’update di Animal Crossing?”. Ovviamente non l’avevano fatto. La sorpresa nei loro occhi era palpabile: “c’è un adulto che ne sa più di noi”.

Una voce dalle mie spalle. “Io l’ho appena comprato”. È la voce di Martina. Non che io la possa distinguere ma è l’unica che arriva dalla direzione nella quale voltandomi trovo in piedi una donna. Ho chiesto anche il suo, di nome, ovviamente, dopo.

Conosce il nome di quel tipo di videogame. Vi spiego il mio stupore. Qualche ora prima, Carla, si era riferita a Totoro, come ad: “un pupazzetto che palleggia”. Uno dei personaggi più riconoscibili nella produzione di Miazaki. Le volevo bene, fino a dieci secondi prima.

Non riesco ancora a stilare una classifica delle stranezze che capitano a chi s’avventura tra le paludi della Serie C. Qualsiasi sia lo sport. Perfino i tatuaggi hanno un senso convoluto. Le partite hanno una andatura più simile alle passeggiate per lo shopping. Vai piano osservando le vetrine, affretti il passo quando non t’interessa.

In Serie C è difficile comprendere quando accadrà qualcosa, come il tiro ad incrociare sul secondo palo, che ha dato la vittoria alla squadra di casa. Scattavo ma in testa una vocina mi ripeteva “non seguire il pallone è sparacchiato a caso”, resta sul giocatore.

Ovviamente, mi sbagliavo. Esultanza, palla nell’angolo basso lontano dal portiere avversario. 
Come sulla punizione in occasione del primo gol della partita. “Adesso vuoi che un tiro dritto per dritto non sbatta sulla barriera?” Palla sotto la traversa. Gol.

Il futsal s’alterna al calcetto. In una convulsa lotta per il primato. Perché il risultato conta, altrimenti perché si gioca?

La palla viaggia lungo e linee di passaggio per poi impazzire, all’apparenza e all’improvviso. Come se un caos primordiale si fosse impadronito del tempo.

Anche le regole, quelle che l’arbitro dovrebbe far rispettare, rappresentano in realtà, una idea di massima, una indicazione. “Rimessa dal fondo”, “Ma come arbitro, loro stanno difendendo il calcio d’angolo”. “Allora va bene è corner”. Come al campetto. Meraviglioso, così.

Le gambe dei giocatori roteano, la palla viene colpita, rimbalza, viene calciata ancora. In un palazzetto che sembra troppo grande per le loro gambe ma troppo piccolo per il loro cuore.
Il Centrostorico Montesilvano ha vinto 3 a 2. Avversario, la Cantera.

Alla fine della serata, con un negroni che gioca a rimpiattino nel mio stomaco vuoto, rifletto su questo futsal che non è ragione di vita ma volano di vita. Perché queste donne lo incastrano nel mezzo di vite fatte di lavoro, impegni, responsabilità e anche sogni. “Non so ancora se da grande voglio fare la parrucchiera o la fisioterapista”. C’è sempre tempo per i sogni.

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