Caffè Corretto – … allora ti piace …

Parafrasando: “è un peccato che due società sane debbano giocarsi la salvezza”. Un vero peccato. Come non si fa ad essere d’accordo con questa accorata dichiarazione d’un presidente di futsal, uno di Serie A. Non conta se al maschile e al femminile, non davvero.

Proseguendo con la parafrasi, puramente a scopo stilistico: “stipendi, scadenze fiscali, tasse, certificazioni uniche, non manchiamo mai alle nostre responsabilità”. Un presidente modello, come pochi. Impossibile non essere solidale con lui. Bravo, con un certo accento francese.

Due società sane, serie, sono lì a giocarsi la salvezza. A fronte d’un facile sillogismo possiamo desumere che ce ne siano di meno serie. Quelle che emergono poi  solo nelle decisioni della Commissione Accordi Economici. I due elementi portano alla superficie una condizione per la quale, seguendo la prosa proposta, ci sono società che vivono al di sopra delle proprie possibilità. Un mondo fatto di promesse infrante e di sogni a perdere.

Se però questa è la condizione nella quale si gareggia, contro avversari che sul campo godono d’un vantaggio competitivo maturato con pratiche economiche non proprio trasparenti, perché partecipare in una competizione di fatto alterata? Se il fine ultimo della competizione è la vittoria, essere gli attori decubertiani che permettono ad altri d’alzare trofei di simil plastica, non è a nocumento di una cultura sana dello sport?

“Abbiamo messo in sicurezza il sistema”, così ha dichiarato nella sua ricandidatura alla presidenza, l’attuale numero 1 di via Tiziano. A leggere le parole di questo presidente non sembra poi che ci sia molta sicurezza nel sistema.

Vien da domandarsi infatti come mai nessuno controlla l’attività economica delle squadre, almeno nella massima serie? Eppure ad inizio mandato di questa Governance s’erano sbandierati controlli stringenti, addirittura trimestrali, le quasi famigerate liberatorie. Che fine hanno fatto?

Qui inizia una storia che ha del grottesco. Ricorderete sicuramente il fitto bisbiglio nelle segrete stanze che alimentava l’agitazione di società che non riuscivano a farsi firmare sulla fiducia dagli atleti la liberatoria. Con la fiducia non si può pagare alla cassa del supermercato così questi ingrati giocatori volevano il denaro, la moneta corrente.

Il rischio che sembrava concretizzarsi all’orizzonte era quello d’un collasso dei campionati, troppe squadre inadempienti. Davvero? No. Perché ed ecco che arriva l’arco narrativo grottesco, non ci sono oggi sanzioni per chi, citando l’ex titolare di Via Venti Settembre, Giulio Tremonti, s’affida: alla finanza creativa.

Non ci sono gli strumenti sanzionatori. Non pagate, tranquilli c’è un automatico: uscite gratis di prigione. A meno che non siano stati i giocatori a promuovere un’azione sportivo-legale. Ve lo scrivo ancora, così per essere assolutamente chiaro: se non pagano, le società non rischiano nulla a meno che non siano i giocatori a reclamare i loro denari. Sempre che quest’ultimi abbiamo un regolare contratto.

Così passano mesi, anche un intero anno, prima di vedere una sanzione effettiva, pecuniaria. Società continuano a competere a fronte di una condizione economica spesso precaria, poi passa qualche anno e chiudono. Il palmares del campionato di serie a è pieno d’esempi di questo tipo. La pena non comporta penalizzazioni sportive.

Gli strumenti esistono, vengono applicati tra i professionisti. Le sanzioni erogate hanno effetto immediato sulla stagione in corso, perché è quella che viene alterata da pratiche economiche poco chiare. Ricordate lo scorso anno la lunga querelle per gli “impicci bianconeri”? Ecco quelli.

Oggi i giocatori sono lavoratori sportivi. Con un contratto di categoria, affetti anche da tutte le relative incombenze che attengono anche al controllo d’influenza della giustizia ordinaria. Le azioni eventuali dell’Agenzia delle Entrate, quanto dell’ispettorato del lavoro non sostituiscono gli obblighi della giustizia sportiva. Li aggravano invece. Non pagare i contributi ad esempio, oppure eludere la consistenza dei contratti generano effetti e responsabilità in due ambiti semplicemente attigui.

Quindi perché partecipare ad una competizione di fatto alterata? Non trovo altra risposta che quella nel titolo. In fondo “ti piace”, va bene così. Ci sono decine di altre attività sportive meritorie nelle quali investire con serietà cifre importanti. Tirar su un club che aiuti ad avvicinarsi allo sport quelle fasce di reddito più svantaggiate? La butto lì.

Perché quindi non sbattere i pugni sul tavolo del Presidente reclamando trasparenza, onorabilità e giustizia. Perché lamentarsi d’essere onesti e corretti come causa della propria posizione in classifica invece d’invocare nelle stanze del potere regole certe e sicure? Forse perché “in fondo, ti piace”.

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