L’Arcobaleno del Futsal

Quante volte, quante vite, quante storie si sono intrecciate in questi campi.

Quanti visi dimenticati, trasformati, invecchiati. Quante promesse non mantenute, quanto dolore e quanto amore e quanti scarpini rotti, palloni bucati, casacche sbiadite e maglie termiche dimenticate sul gancio dell’appendiabiti.

Chissà che fine hanno fatto le tante cose che ci siamo detti, quelle diagonali e lo schema perfetto.

Se c’è una cosa per cui mi maledico è questa sensazione che cerco di continuo. Sembra malinconia ma in realtà gli somiglia solo, è più una sorta di ruspa con cui scavo la superficie e cerco di arrivare al dolore.
Perché?
Perché lo conosco bene e so che è l’unica cosa che può farmi sentire nel salotto di casa mia, quasi confortato. E’ tutto apposto, se c’è lui sono vivo, ho qualcosa per cui lottare, qualcosa da cambiare e migliorare perché questa non è una partita di futsal, è una lotta di ideali.

Quale dolore?

Quello dei momenti difficili in cui non riesci a venirne a capo, dove tutto continua a girare ma gira male, i risultati in campo, gli umori fuori, lo spogliatoio e poi questa maledetta spia accesa sul quadro della macchina che mi ricorda una coppa ma probabilmente è quella dell’olio.

Lo sport mi trascina in un mondo in cui il dolore non smette di esistere ma si allarga, si placa, diventa insieme più calmo e più profondo, come un torrente che si trasforma in lago.

L’hai guardate mai negli occhi come se dovessi leggerci attraverso?

L’ho fatto ma a volte ho visto anche il vuoto e non mi è piaciuto. Come la convinci una giocatrice a fare qualcosa per te, per noi, se non ha un’anima accesa. Se si è spenta e poi era già spenta prima o è successo qualcosa? Che ne so, come la candela, si bagna la fiamma, cade la cera e non ci sei più?

Oppure come direbbe Novecento:

 “A me m'ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro, fran. Non c'è una ragione. Perché proprio in quell'istante? Non si sa. Cos'è che succede a un chiodo per farlo decidere che non ne può più? C'ha un'anima, anche lui, poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo col quadro, erano incerti sul da farsi, ne parlavano tutte le sere, da anni, poi hanno deciso una data, un'ora, un minuto, un istante, è quello, fran. O lo sapevano già dall'inizio, i due, era già tutto combinato, guarda io mollo tutto tra sette anni, per me va bene, okay allora intesi per il 13 maggio, okay, verso le sei, facciamo sei meno un quarto, d'accordo, allora buonanotte, 'notte. Sette anni dopo, 13 maggio, sei meno un quarto, fran. Non si capisce. È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, altrimenti ci esci matto. Quando cade un quadro. Quando ti svegli un mattino, e non la ami più. Quando apri il giornale e leggi che è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi io devo andarmene da qui. Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio.”

Quando ti alzi una mattina e dopo una vita passata a rincorrere qualcuno lei ti guarda e ti dice va bene.

Ed allora pensi di avere una responsabilità grande, quella di farla felice. Quantomeno di dare tutto te stesso perché se la felicità non può dipendere solo da te, l’impegno si, quello te lo devi prendere e te lo devi ricordare tutti i giorni, tutte le volte che vai in campo, che prepari un allenamento.

Perché alcune strade si dividono? Perché una giocatrice smette e cancella se stessa, i suoi sogni, le cose fatte bene e pure quelle fatte male e soprattutto quanto dolore ha dentro per chiudere il borsone e metterlo in soffitta?

E qualcuno se ne è preoccupato o l’ha sempre e solo vista come un numero, che ne so un 5 o un falso 9.

Come se sotto quella maglia non ci fosse una storia di donna che valeva la penna accudire. Ascoltare, magari facendo finta di non sapere che quel talento li teneva per mano una bambina che aveva bisogno di fiducia, di tempo o semplicemente di essere guardata con l’attenzione che merita.

Perché io invece sono ancora qua a farmi domande e a crederci e non darmi per vinto e voglio credere anche nel futuro prossimo cosi come ho creduto al passato remoto che si sa è sempre meglio del passato di verdure.

Siamo stati pioggia e arcobaleno. Nascosti dietro gli occhiali da sole. Nei nostri abbracci, nelle risate che per strozzarle diventavano colpi di tosse. Nelle urla per quella giocata di prima e poi il nostro portiere di movimento. La punizione all’ incrocio dei pali e quel primo gol in amichevole e ancora tante ginocchia sbucciate, dita steccate e unghie improponibili ma graffianti in ogni partita.

Grazie
A Ranghi ed a mia nipote Rebecca.

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