Drive to Survive, settima stagione

Sette marzo. Puntuale come la morte e le tasse, frase attribuita in origine a Benjamin Franklin, arriva Drive to Survive.
Chi vi scrive ha sempre avuto un interesse per gli sport motoristici direttamente collegato alla possibilità di guidare in un videogame. Per anni guardare delle macchine girare per un tempo che sembrava infinito sullo stesso “pezzo di strada” lo trovavo alquanto noioso.

Sette anni fa, la Formula 1 era uno sport confinato ad una generazione piuttosto matura e a nerd di pistoni, cilindri, effetto suolo e angolo di campanatura. Quando la F1 nel 2018 annunciò di aver commissionato una docu-serie di 10 puntate che raccontasse il dietro le quinte di una stagione di formula uno, nessuno s’aspettava la tempesta perfetta che i ragazzi di Box to Box hanno poi prodotto.

Settima Stagione. Prima Puntata. Primi 10 minuti.
Horner e Haleiwell, il primo team principal della Red Bull e la seconda è una ex Spice Girls, in macchina mentre si dirigono da qualche parte. Lui si compiace dei successi da record del suo team nella stagione appena trascorsa.
Taglio Secco.
Serie di spezzoni nei quali si racconta dello scandalo delle email e dei messaggi piccanti che hanno coinvolto Horner e una sua collaboratrice.

Nessun prigioniero, nessun tentativo di raccontare uno sport per quello che non è. James Gay-Rees e Paul Martin sono dei maestri nel racconto sportivo eguagliati forse solo da Peter Berg. Se questi nomi vi sono alieni, ecco questa è l’occasione per approfondire la narrazione sportiva, ricercando i lavori di Peter Berg.

Comprendere che il pubblico, quello che non è particolarmente appassionati di motori è però interessato ad una storia, raccontata bene, senza censure, senza che sia calmierata nel tentativo inutile di trattare tutti allo stesso modo, quell’uguaglianza che non esiste a meno che non si vogliano considerare un valore comune il semplice atto di respirare.

In Drive to Survive la narrazione non è intrisa di quella falsa patina di buonismo. Alla domanda “qual è l’avversario più pericoloso?” la risposta è “il mio compagno di squadra”, la verità. Dura, cruda, probabilmente terribile. Ma così è anche la realtà. Nessuna menzogna del tipo “siamo una famiglia”. Mors tua, vita mea. La tua morte, la mia vita.

La radice del successo di una serie che ha portato milioni di nuovi appassionati alla Formula 1 è in quella semplice formula. Oltre ad una straordinaria abilità nella fotografia e nella sintesi di eventi sportivi lunghi ore. La ragione del successo di Drive to Survive e del fallimento invece di serie come All or Nothing si racchiude in una parola: autenticità.

Quando le decisioni artistiche e narrative vengono prese dai protagonisti delle docu-serie, il fallimento è assicurato.
Se perfino in Cappuccetto Rosso, muore qualcuno, la nonna uccisa dal lupo, perché certi sport s’ostinano a rifilare al loro pubblico solo notizie narcolettiche, minimizzando la cruenta morte della nonna di cappuccetto rosso. Che tra l’altro pensateci bene è sbranata da un lupo, un affare sanguinoso.

Il momento peggiore, nella narrativa degli sport minori è quando sono chiamati a parlare personaggi del tutto minori. Un po’ come se in Drive to Survive si dedicasse una intera puntata alle ragazze del bar del Motorhome Ferrari. Si può ma… seriously? Non tutti i protagonisti di una storia sono anche personaggi, vero. Quei pochi che ci sono però andrebbero sfruttati.

Drive to Survive c’insegna che a pochi importa guardare 82 giri di macchine su una pista da qualche parte sul globo terraqueo. Ma a tutti, dannatamente a tutti interessa sapere se Horner ha davvero tradito la moglie, se Hamilton ha trattato alle spalle di Wolf con la Ferrari e se davvero Verstappen in pista è disposto a tutto pur di vincere.

Guardatelo. Merita.

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