Un messaggio su Telegram, lo screenshot d’un pezzo scritto nel 2018. Scopro che oggi come allora quella sensazione che s’attacca al cuore, un misto di impotenza e disperazione, non s’è davvero affievolita, s’è solo rifugiata in un cantuccio dell’animo.
Filipa mi manca esattamente come sette anni fa. Perché è una parte della famiglia, perché è in tanti ricordi, non solo quelli belli ma c’è come accade alla famiglia che non ti capita ma ti scegli. Lei è l’unico giocatore che i miei genitori conoscono e del quale credo gli importi veramente. Mi manca per la donna che era, quella che è, quella che è diventata.
Quando racconti la parte buia di te, accade così. Ti leghi a qualcuno anche quando il tuo cervello ti ricorda, continuamente, che lei andrà via, perché quello è il suo lavoro. Resta dietro un vuoto che non è possibile colmare e diventa complicato raccontare uno sport senza conoscere i suoi protagonisti.
Chi sono, questi atleti, è infinitamente più importante per me di quello che sono. Può apparire una differenza semantica ma in realtà si tratta di una differenza emotiva. Una cifra che mi impedisce spesso di scrivere d’un atleta: “è scarso, semplicemente”. Non si tratta di buonismo del quale sono incapace, credo non vengano retribuite sufficientemente per vedersi recapitate certe frasi.
In una chat diversa mi capita di leggere una frase che è l’inizio d’una riflessione più ampia. “Si però del pallone vedono solo il prodotto finale. Che si tratti d’un gol, della vittoria o dei titoli. Senza vedere tutto quello che c’è dietro. La rinuncia ad una vita “normale”. Ventiquattr’ore di pensieri, l’autocritica pesantissima che è la parte più dura. Vittima di quell’idea che sei non sei la migliore al mondo allora sei una fallita. Ti dico, per me non è così una questione bianco o nero.
Confesso che alla prima lettura ho pensato: “non volerle bene, andrà via.” C’è voluto qualche istante, forse di troppo prima di offrire un contribuito specifico alla conversazione. Essere un atleta, anzi essere un agonista a parità di talento è una questione emotiva. Si racchiude spesso nel disagio profondo che provoca non essere il migliore, in quella autocritica durissima, nel pensare continuamente a come essere “migliore” a quell’idea che qualcuno possa scoprire che in realtà non sei bravo abbastanza, bravo come credono.
È nelle rinunce. Nel sacrificio, nell’essere disposti a fare quel qualcosa in più rispetto a tutti gli altri.
È quella idea malsana che correla la tua abilità direttamente alla persona che sei, all’essere umano. Finiamo così a parlare di come sia profondamente doloroso per l’animo il giudizio affrettato, il peso delle aspettative degli altri. Del dolore che porta la più giovane attrice mai invitata a Cannes ad uccidersi a 24 anni.
Mi racconti che ti sei letteralmente mangiata 10 ore di k-drama in due giorni, io che pensavo d’essere un consumatore compulsivo di contenuti. Forse avremmo dovuto parlare di “big match”, di “giocare per vincere” e potresti aiutarmi a capire se qualcuno gioca mai per perdere.
Invece scelgo di lasciarti alcune frasi da Melo Movie.
Sono in inglese così dovrai fare lo sforzo di andare oltre “the cat is on the table”.
Talking to people and getting closer to them makes me uncomfortable because they will all leave one day.
Sometimes my life made me feel like I was in water. I was unable to tell if I was sinking or floating. I was just at a loss.No matter how hard you pretend to go on with your life, the broken parts inside always seem to crop up again. And the anxiety repeatedly creeps in.
See you around. Good Luck.