Mi scatti una foto?

Una vocina sottile di quelle che appartengono solo ai bimbi o alle bimbe. “Ora che entro mi scatti una foto?”.
Non “delle” foto, ma una. Una sola le era sufficiente. Dentro ad un corpo troppo piccolo per giocare a calcio ma anche a questo calcio con il pallone che rimbalza meno, c’è questa voce gentile. Le ho risposto che ne avevo già scattate a lei in campo.

M’ha guardato come se non era possibile che mi fossi accorta di lei.
Ho passato il resto della partita a scattare foto di questa piccola atleta piena di ricci che si batteva in campo contro avversarie alle quale doveva concedere troppi centimetri e troppi chilogrammi.

Perché sono seduto lungo la linea laterale d’un campo al coperto, in un indaffarato martedì che s’avvolge verso la sera? Nessuno di quelli in campo è fortunatamente mio figlio. La partita non ha nessun significato agonistico rilevante, la qualità del gioco è più simile all’ora di “motoria” in una scuola italiana.

Sono qui perché questo giocatore minuscolo, sì al maschile per me sono tutti giocatori non conta il sesso, m’ha appena ricordato che alcune attività della vita le facciamo perché ci piace farle. Correre in quel campo, inseguire un pallone che raramente obbedisce ai piedi di chi lo calcia, dividere lo spogliatoio con amiche e anche quelle meno amiche, è un divertimento.

Ovviamente nessuno si diverte a perdere. C’è però la gioia tutta personale nell’indossare pantaloncini e maglietta. Allacciarsi male le scarpe e correre in campo. La squadra di Tiny Curly ha un problema serio con la capacità di allacciarsi gli scarpini da gioco, seriously.

I gol in questo genere di partite non sono un risultato del gioco quanto un accidenti del caso, finisce che ne perdo la maggior parte e mi ritrovo solo con scatti di esultanze e anche quelle mostrano un atletismo decisamente rivedibile, sebbene abbiano quella gioia che circonda chi è felice per aver fatto bene qualcosa.

Under 15, femminile, calcio a 5, Italia.
Hanno appena oltrepassato la soglia per iscriversi a Instagram e per giocare ad Among Us. Lungo la panchina s’intrattengono conversazioni del tipo “ti fai la doccia anche a casa?” e si disserta, forse disserta è leggermente esagerato, di vasche da bagno e inevitabilmente di scarpe. Non c’è nulla di più trascurabile al mondo, tranne che per loro.

A loro importa, giocare le rende felici, è un qualcosa che a loro piace. Ecco gli elementi che si legano insieme e le fa ritrovare sedute in uno spogliatoio. Divisa da gioco troppo stretta o troppo grande indosso e scarpini ai piedi. In un modo che urla loro che la felicità è direttamente proporzionale alla notorietà, scendere su quel campo è un atto rivoluzionario.

Fare qualcosa, qualsiasi cosa, solo perché ci rende felici è oggi, rivoluzionario. Farlo a prescindere dal risultato, dall’essere particolarmente bravi nel farlo è la vittoria più grande. Provare, sbagliare e poi provare ancora perché il fallimento è naturale, così naturale da essere più frequente del successo.

Ecco perché sono seduto qui, per lasciare che delle bimbe che corrono non proprio come delle centometriste e con una coordinazione approssimativa, siano il sentiero che conduce alla libertà che sprigiona dal quello che facciamo perché amiamo farlo, anche se non siamo i migliori.

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