Dall’uno all’undici

Qui c’è tutto l’amore che ho dato, tutto l’amore incondizionato, di cui mi sono nutrito e che spesso è stato l’ancora di salvezza a cui aggrapparmi quando il cielo diventava scuro e calava piano piano sopra la mia testa, sopra alle nostre teste.

La notte porta scompiglio altro che consiglio, un ronzio inquietante proviene dal motore del frigorifero, di giorno non lo senti ma di notte è l’unica cosa che rompe il silenzio e allora visto che di dormire non se ne parla vai giù a 2 mani nei ricordi, in tutto quello che ha costruito, il tuo oggi.

La vuoi raccontare questa storia?

Non proprio, forse è talmente intima che lasciarla andare mi provoca un po’ fastidio e poi cosa vuoi che gliene interessi agli altri di una storia fatta di ragazze che si sono costruite un passo dopo l’altro, in fila dietro a tutti ad aspettare il proprio turno.

Tra campi di periferia bagnati, spogliatoi simili alla casa degli orrori, portieri di movimento con la maglia bucata, arbitri con gli scarpini ad 11, trasferte si di zona ma con orario di gioco e temperature più consoni all’ America’s cup, alle 22.30 di domenica sera in posti sperduti.

Hai sfiorato di uscire da questa prigione tante volte ma non ce l’hai mai fatta e non è tanto l’insuccesso sportivo ma il tentativo di dare qualcosa di meglio a queste ragazze che prima di fare le professioniste in campo fanno i conti con la fila alle casse, i caffè al bar, il disagio di quello che fai perché lo devi fare e basta, perché in qualche modo bisogna campare.

Oggi dopo un mese di prove tecniche si comincia e allora il Mercedes 50 posti che ti aspetta al parcheggio sembra la carrozza del principe azzurro, le maglie con i numeri ed il nome sopra, lo sponsor tecnico e quello aziendale, i palloni della divisione, lo starting five ed il palazzetto di Chiaravalle.

Niente più maglie termiche, abrasioni da sintetico, refresh sulle previsioni del meteo per sperare che non piova, niente più nervoso per l’avversario che perde tempo e soprattutto niente più terrore che l’arbitro di turno alla prima partita della sua vita rovini tutto.
Niente provincialismo, niente maleducazione dagli spalti, nessuna insinuazione perché in realtà tu sei nessuno, non ti conoscono e non ti calcolano ed è la sensazione più bella del mondo, è come poter uscire in mutande per strada a prendere un caffè ed essere invisibile, libero.

Libero di essere e non costretto ad apparire, libero di poter ridere, piangere, concentrati su te stesso e sapere che non dipendi dagli altri e che questo parquet lucido di 40 anni sembra quasi quello della tua camera, la stessa in cui sognavi un giorno di essere qua.


Non voglio esacerbare gli animi, la prima frase nello spogliatoio è una grossa risata per tutti, secondo me siamo pronte, mi fido così tanto di questo gruppo perché so e gli riconosco ciò che ha fatto per essere qui e per essere con me, qui ed oggi, questa è la sensazione più bella del mondo.

Nessuno è qui per un motivo diverso dalla catena che lo lega all’altro, una catena povera, pane secco e amore e abbracci e lacrime e poi fiducia, scontro e pace e baci, poi schiaffi sonori e carezze delicate sulla fronte perché chi la vita la prova sulla sua de pellaccia non dovrà mai chiede un sorso da un’altra borraccia.

Si parte, loro sono forti ma noi non vogliamo scendere da questo gradino, si corre ovunque, si battaglia e creiamo una, due, tre occasioni e ci guardiamo come a chiederci se davvero la fila è finita e finalmente siamo nel posto che ci meritiamo.
Intanto il nostro portiere para tutto e la partita è bellissima e poi Quirini con lo stesso candore della sua pelle fa una veronica al limite dell’area ed in caduta incastra la palla in fondo alla porta.

Siamo in vantaggio e non mi sorprende ma c’è una cosa che mi gela il cuore, mi giro ed in panchina hanno tutte gli occhi lucidi, Noemi rompe il silenzio.
Ma posso piange?

Eccola la magia, quella che ricercavo da tempo e credevo fosse svanita solo perché io ero invecchiato e non riuscivo più ad emozionarmi, questo non è più futsal, è sangue e vita, dolce e amaro, kilometri di strade diverse che si ricongiungono e portano tutte a questa panchina dove la gente come noi sa ancora piangere.
La partita è una battaglia e rimane in bilico fino a 6’ dalla fine tra traverse, miracoli dei portieri, gol sbagliati e poi prende e va in discesa per i nostri dirimpettai ma non sono i 3 punti, il risultato e quel che è scritto nel tabellino a poter decidere chi siamo noi oggi.

Oggi, ieri e domani non siamo cambiati di una virgola, non ci ha cambiato il salto di categoria, le delusioni e nemmeno i successi, non ci ha cambiato il viaggio in carrozza piuttosto che sul somaro e nemmeno i tanti post delle persone che ci hanno seguito.
Semplicemente quelli come noi non cambiano mai, io vado fuori a fumare dispiaciuto per le due ragazze che non hanno giocato ed è lo stesso dolore che provavo 15 anni fa quando facevo le prime panchine, Valerio si carica tutto quel che abbiamo portato fin qui e mi accarezza una spalla, Francesco con 37 di febbre è un vulcano come e più di quando sta bene.

Ho mille audio su whatsapp, li mando a velocita raddoppiata ma non è sufficiente a superare il battito del mio cuore che non sa come liberarsi di tutto l’amore che sente verso queste persone che oggi hanno combattuto per lui.

E le ragazze?

Le ragazze sono nello spogliatoio, vorrei tanto dirglielo, sono troppo fiero di loro.
Qualcuno pensa che sia scontato o che possa esser facile ma forse è la cosa più difficile del mondo far capire ad ognuna di loro che hanno un mondo dentro di sé in cui scavare e trovare energie, risorse per elevarsi fin qui.

Averlo intuito 10/12 anni fa quando erano ancora ragazzine mi sembra la medaglia più grande del mondo da poter indossare ed avercele portate è come aver accompagnato Sandro Pertini fuori dall’isola di Ventotene durante il confino.
Oggi è l’agosto del 1943, è finito l’esilio.

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