Chiude anche la Virtus

Qualche giorno fa attraverso un post su Instagram, Cecilia Zandalasini ha annunciato la chiusura del progetto femminile della Virtus Bologna di basket. Parole disilluse e dure da parte di una delle più importanti atlete del basket femminile che sta disputando la stagione WNBA con le Minnesota Lynx, in un momento di eccezionale boom del basket femminile in USA.

La Zandalisini paragona impietosamente le due realtà. Anche dimenticando che ad esempio, solo in questa stagione le squadre della WNBA hanno potuto usufruire di voli charter. Oppure che le perdite economiche della lega anche in questa stagione saranno coperte dai soldi generati dalla NBA, la controparte maschile.

Nessuno nega che il basket femminile in Italia stia colando a picco. Solo già tre le squadre che nel giro di questa estate hanno abbandonato la massima categoria: Virtus appunto, Ragusa e Roma. Ma queste negli sport così detti minori sono dinamiche che si ripropongono ciclicamente perché non esiste un sistema economico in grado di creare un circuito finanziario virtuoso.

Spesso gli atleti dimenticano e anche molti addetti ai lavori, che talune discipline sportive come il basket femminile si sostengono esclusivamente attraverso il mecenatismo. Esiste un limite temporale oltre il quale difficilmente un imprenditore vero può spingersi nel finanziare una operazione sportiva costantemente in perdita. Esattamente come accade anche nel futsal.

Massimo Zanetti, l’imprenditore presidente della Virtus Bologna è anche il fondatore e proprietario del marchio Segafredo. Se uno dei maggiori aziende italiane di lavorazione del caffè non è in grado di sostenere l’impegno del basket femminile che speranze possono avere le squadre localizzate in centri periferici da poche migliaia d’abitanti e sostenute da imprenditori locali? Nessuna.

È la triste realtà dell’economia di mercato. Incomprensibile spesso per molte giocatrici e molti giocatori. Ai quali viene tolto il sogno di giocare professionalmente a quello sport che è anche una ragione di vita. Spesso abbagliati anche dagli occasionali cialtroni che raccontano di sport in espansione e l’unica cosa che d’avverso s’espande è il costo per sostenere le squadre.

Non è mai una questione di riempire il PalaDozza, gli incassi contano generalmente per meno del 30 per cento sul computo dei ricavi delle società professionistiche di calcio, ma di creare un prodotto anzi meglio di creare un bisogno che quel prodotto poi possa soddisfare.

Non basta la retorica dello sputare il sangue per la maglia, della appartenenza cittadina, a far diventare una disciplina sportiva un prodotto. A creare uno spazio d’acquisto. Se non importa ad abbastanza persone, se queste non ritengono l’offerta all’altezza di un investimento in denaro, la disciplina in questione è un hobby, un passatempo.

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