Noi siamo quello che facciamo

Il futsal italiano rivendica a parole la sua voglia di professionismo, spesso ammanta la sua narrativa con una coperta colorata piena di parole come progetto, sostenibilità economica, indotto, merchandising. A quelle unisce lemmi con una natura semantica profondamente diversa: valori, resilienza, appartenenza.

Il professionismo è prima di tutto un obbligo civile e successivamente una garanzia per gli investimenti. Spendere quanto si guadagna è la garanzia più importante per tutti: tifosi, città, partner commerciali e portatori d’interessi. Quando però non si guadagna nulla, la garanzia dell’impegno economico diventa un terreno acquitrinoso nella migliore delle ipotesi.

Spesso, troppo spesso, sono le stesse giocatrici più dei giocatori, a cacciarsi nel pantano d’instabilità societarie, contratti inesistenti e promesse disattese. Le soluzioni che dovrebbero essere professionali, spesso collidono con scelte emotive, sconfinano in considerazione altre dalla logica d’interesse primario. In una professione come quella dell’agonista che per natura è breve, massimizzare il guadagno dovrebbe essere una priorità.

Invece le giocatrici sembrano incredibilmente attratte dalla narrativa favolistica. Quella che non ha alcun riguardo per i fatti. Come quelli chiaramente esposti nelle sentenze della Commissione Accordi Economici. S’accettano condizioni che nella migliore delle ipotesi assomigliano a “fattura pagata a 90 giorni”. Spesso accentando rassicurazioni economiche che sono già state disattese in precedenza.

Il “maledetto sponsor” è stato evocato così tante volte che dovrebbe assurgere a membro della Hall of Fame del calcio a 5. Un personaggio mitologico che esiste solo grazie alla diffusa credulità di molte atlete. Sarà ma questa sorta di minotauro economico appare sempre negli stessi labirinti narrativi, difficile sia una coincidenza.

Se il calcio a 5 ha una sua valenza sociale, come ha più volte ribadito l’ormai quasi ex presidente della Divisione Calcio a 5 allora non c’è chiaramente spazio per il professionismo in questa disciplina. Una volta stabilito che la pratica di questo sport è un hobby remunerato quando capita, sono sensate anche le scelte emotive a detrimento di quelle sportive ed economiche.

È perfettamente sensato scegliere l’amore, gli affetti, il panorama e la qualità della vita, scegliere Shangri-La invece di quel posto scomodo, brutto ma decisamente remunerativo. Sciocchi quelli che fanno scelte professionali, come farsi tirare addosso dai mortai somali o stare troppo vicini al CAS israeliano perché quella è la loro professione e tra l’altro la remunerazione è all’altezza del rischio.

Beati quelli che possono scegliere di vivere d’amor e di bellezza. Per tutti gli altri come amava ripetere il mio nonno: “i soldi si trovano dalla parte scomoda della vita”. Richiedono sacrifici, altrimenti li otterrebbero tutti. Un po’ come le vittorie agonistiche.

Il professionismo non è bello, non all’inizio almeno, non se non hai successo. Il professionismo è andare in prestito magari in club meno prestigiosi e con meno possibilità, una sorta di Erasmus sportivo, anche solo per la certezza di giocare con più continuità. È una prova di vita. È lasciare la propria zona di conforto, la piccola squadra nella quale si è l’atleta migliore per andare a confrontarsi con colleghe più esperte quando magari s’è appena assaggiato il “professionismo”.

In mezzo a tutto questo parlare di valori che si fa nel calcetto a cinque, soprattutto al femminile, si trascura quello della professionalità. La professionalità è un valore, che non va necessariamente di pari passo con l’avere successo o fare una carriera strepitosa, ma dovrebbe essere la base su cui un professionista fonda ogni sua attività. Purtroppo non va sempre in questo modo, sia nel mondo del lavoro che nella sfera del privato. E, a tal proposito, vale la pena ricordare che è sempre la stessa persona che vive la vita lavorativa e privata e, di conseguenza, l’essenza non cambia in funzione del momento della giornata o della situazione, a meno che si tratti di un falso.

Come diceva Leonardo Sciascia: noi siamo quello che facciamo.

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