In scena in questi giorni, in quel di Rimini, uno dei futuri possibili del calcio a 5 tricolore. Dopo una stagione di stages e selezioni. L’inizio d’un percorso per rendere questa disciplina sostenibile almeno per quello che concerne la ricerca del talento, l’addestramento dello stesso e ammesso che sia possibile, l’istruzione dello stesso.
Una delle ottime iniziative promosse anche da questa governance del calcio a 5, che s’appresta ad affrontare la tornata elettorale ma su questo argomento torneremo una prossima volta. Se molte squadre di vertice e non solo s’affidano a giocatori provenienti da federazioni estere, s’è sempre sostenuto fosse per mancanza d’investire nel lungo termine, nei giovani.
Sebbene questa iniziativa sia complessivamente la terza edizione, la prima con questo nome, osservando le partite di questa edizione della Future Cup sembra chiaro che non ci sia quel genere di talento generazionale. In alcune categorie anzi il livello è diciamo lontano anche solo da standard minimi di competitività.
Se il calcio italiano vive un momento, anche piuttosto lungo ormai, nel quale sembra difficile trovare talento nei giocatori, il calcio a 5, suo cugino più povero, certo soffre maggiormente questa penuria. Tre anni sono davvero pochi per sedimentare una realtà di reclutamento e sviluppo, sull’intero territorio nazionale. Le risorse non sono tantissime e l’iniziativa è sicuramente meritoria.
Se vivessimo all’interno di una bolla autarchica, d’autoproduzione di talento, la penuria di abilità tecnica anche di base, risulterebbe omogeneamente diffusa, livellando di fatto il livello della disciplina. Ma non è così. Appena usciamo dai sacri confini tracciati dall’aratro di Romolo ecco che 6 (sei) under 15 di Orlando, Florida, rifilano 22 reti alle pari età italiane. Oppure una under 19 di una città dell’Oregon bette una squadra di pari età spagnola, com’è possibile che accada?
Non è che forse più che cercare talento spesso si reclutano discenti? La differenza all’apparenza sembra solo semantica ma potrebbe essere culturale. Innanzitutto non c’è lo stigma sociale di praticare uno sport “poco femminile”. Non esiste nemmeno il problema dell’identità sessuale. In alcuni paesi praticare uno sport anche a livello dilettantistico è il viatico verso una professione, non un passatempo sociale.
Nell’italico stivale così arido di talento, novelli rabdomanti finiscono con lo scovare, setacciando molto, qualche piccola goccia di talento. Per giustificarne la ricerca lo ingigantiscono. A tal punto da rendere i traguardi possibili per gli atleti così fuori dalla loro portata, da renderli un fallimento. Qualche anno fa, un giocatore arrivò ad indossare la maglia azzurra, fu definito il futuro nel suo ruolo nell’italico futsal. Trasferitosi oltre confine, gioca nella terza divisione di una delle federazioni che dominano la disciplina.
Il talento è un valore assoluto, nel calcetto tricolore è divenuto elemento relativo al contesto. Non inciampare nei proprio piedi è divenuto segnale di crescita prospettiva. Un paio di dribbling e di giocate contro avversari di 20 anni più vecchi e dal passato glorioso ma dal presente pensionabile, diventano le stigma del grande campione.
Altrove si coltiva il talento e lo si cerca dove l’elemento fame, anche nella sua accezione letterale, resta il motore principale. Fame e Fame ma in inglese, sono più sinonimo di quello che s’immagina il pueblo. C’è un abisso tra la funzione sociale di una disciplina sportiva e la sua componente competitiva. Il calcio a 5 italiano cerca disperatamente di tenersi in bilico tra due realtà profondamente diverse.
Finendo inevitabilmente per danneggiarle entrambe.