Un weekend fatto di muri, quelli che ti chiudono dentro, come a Montecarlo o Indianapolis, oppure quelli che ti chiudono fuori, almeno per un po’, da un palazzetto. Tempo di semifinali del futsal, quelle al maschile che si trovano a competere con l’unica parte interessante del GP di Monaco: le prove cronometrate.
Quelle al femminile finiscono a scontrarsi con il signorilità d’un dramma sportivo come quello del Frosinone del presidente Stirpe. Un uomo d’altri tempi e forse quei tempi dovrebbero anche tornare. La lotta per non retrocedere dalla A di calcio a 11 maschile, l’illusione europea dei tifosi della asrom(a) coltivata solo sulle radio romane, tanto rumore che per riuscire a percepire il sibilo del calcio a 5 italiano la passione dev’essere così forte da acuire i sensi.
I muri del “quasi” più glamour gran premio dell’anno sono pericolosi perché sembrano ti corrano incontro da tutte le direzioni e provate ad indossare un visore VR e a poi a non pensare che quella del pilota da corsa è una di quelle professioni nella quali è necessario scollegare il piede dal tuo istinto primordiale di sopravvivenza.
I muri d’un palazzetto fanno da cassa di risonanza, aiutano l’effetto eco. Così c’è chi gioca in casa anche se è tecnicamente in trasferta e chi si ritrova fuori di casa come se qualcuno avesse smarrito le chiavi oppure quando il padrone di casa ti cambia la serratura. Nota a margine, un bar solo con le birre piccole è un crimine, contro l’umanità. Per tutto il resto: “Giù con l’asso di denari”.
Ad osservare il campo l’unica riflessione possiible resta quella che: se giochi bene e perdi, forse non hai giocato così bene come credi. L’agonismo per quanto ingiusto eticamente possa sembrare è regolato dal quello che racconta il tabellone. Quello della Indianapolis 500 di Indycar racconta che Pato O’Ward l’ha persa all’ultima curva di 0″3417, non conta che hai corso bene. Quello al massimo spiega le lacrime, quella senza fine e senza che trovino una ragione, nel dopogara.
Se il Napoli ne becca sette dal L84 c’è poco da spiegare, così come per quei sei raccolti nella rete del Montesilvano. Questa non è la ginnastica artistica, oppure i tuffi, nei quali dei giudici valutano anche lo stile. Qui conta il punteggio. Val la pena però ora ripescare la signorilità del Presidente Stirpe del Frosinone, nell’immediatezza della sua retrocessione.
“Sicuramente questa era la partita più importante del Frosinone nella sua storia e purtroppo non siamo stati bravi a capitalizzare le tante occasioni che ci sono capitate, e come spesso succede nel campo se non fai bene tutte le cose che devi fare alla fine vieni punito. Ci sta, il calcio è questo, conosciamo bene le gioie e anche le delusioni che riesce a dispensare: questa sera è veramente una serata molto amara, che però bisogna accettare”.
Niente arbitri, pali, assenze, sfortuna. Niente. Può sembrare retorica, quando sei abituato a pensare sempre al peggio. Oppure è l’esempio d’un presidente che sembra un attempato Daniel Day-Lewis in una sua versione de L’Ultimo dei Mohicani. Forse però in quella antica signorilità c’è anche il passo di differenza con i questi tempi moderni. Che non sono né migliori né peggiori, semplicemente diversi.
Parole, quelle di Stirpe, che non nella sostanza ma nella forma, riconciliano con una certa idea di sport. Di una disciplina anche economicamente complessa come il calcio che non ha bisogno di quello schermo fumoso di frasi fatte e ad effetto. Della cortina di interviste preconfezionate. Stirpe promuove quell’idea che si possa fare sport a misura della propria realtà, restando profondamente ancorati al proprio territorio, anche se questo vuol dire retrocedere.