Dev’essere così l’inferno. Il posto dove si incontrano di notte En e Xanax quando sono sommersi dai problemi. Quando cercano soluzioni che non ci sono prima di un comune attimo di panico.
Una stanza vuota e buia e con il soffitto bianco. Ben illuminato per poterci proiettare sopra tutte le tue preoccupazioni sportive. Quelle che ti assalgono alle 2 di notte che per me sono più vicine alla mattina.
Un magnifico proiettore che stampa sul muro tutte le volte che non ce l’hai fatta e tu le odi. Ti si contorcono le budella mentre le guardi e le respingi. Eppure saranno loro a darti l’esatta dimensione di che fatica corporea hai fatto per arrivare fin lì e questo succederà il giorno in cui potrai alzare le braccia al cielo.
Quel giorno li potrai ripercorrere tutte le lacrime, tutte le sberle, gli sberleffi, i silenzi assordanti e capire che è stato solo il tragitto che ti ha portato fin li.
Bisogna saper soffrire. Bisogna prenderselo quel cazzotto nello stomaco perché non c’è nulla che ti faccia sentire più vivo del saper reagire, del sapere incassare con il sorriso di chi sa come uscirne.
All’inferno puoi perderti o ritrovarti. Puoi bruciare tutte le cose buone che credi di aver costruito. Oppure puoi stringerle a te, proteggerle dalle fiamme e portarle in salvo, le tue cose. Ma anche le persone che hanno voglia e intenzione di salvarsi.
Di solito chi non ha nessun desiderio brucia, brucia tutto. Brucia l’anima, cambia con velocità moglie, macchina, cane, squadra. Invece chi ha provato il dolore sulla pellaccia non starà mai a chiede un sorso da n’altra borraccia perché chi per gioire deve vedere piange uno, dieci, mille mila, nella vita sua starà sempre in fila.
Per raggiungere qualcosa non è sufficiente volerlo, non è sufficiente dirlo. Serve un bisogno fisico a spingerti oltre i limiti, oltre i sacrifici che anche se ti sembravano sufficienti ancora non lo sono. Pensa al sole e da quanti anni corre dietro alla luna senza mai raggiungerla. Lui arriva sempre con qualche minuto di ritardo, lei se n’è appena andata eppure il giorno dopo ci riprova ancora e chissà che prima o poi non si incontrino.
Se le sconfitte fossero tutti fallimenti e le vittorie affermazioni non ci sarebbe tutto il mare di emozioni, contenuti e quintali di roba sommersa che accompagnano il tragitto.
Ma tu come fai tutti i giorni a crederci ancora?
Ma io non è che ci credo come si può credere a qualcosa che vedi con i tuoi occhi. Io ci credo come compensazione di un qualcosa di cui ho assoluto bisogno e che spesso non c’è.
Non ho la necessità di vincere. Non cerco una pezza d’appoggio per dire io sono migliore di lui. Sento piuttosto la giustizia di mantenere una promessa fatta ad un ragazzo tanti anni fa. La promessa di raccogliere anime ferite, radunarle e schiantarle con tutta la loro forza contro il sistema, le ingiustizie, i millantatori e poi quant’è bello guardarsi negli occhi e dirsi ce l’abbiamo fatta?
Se non ti spaventerai con le mie paure, un giorno che mi dirai le tue. Troveremo il modo di rimuoverle, tu hai l’anima che io vorrei avere, lei per strada, lui rubava i libri della biblioteca e poi glieli leggeva.
Penso a Rosy, al suo viso gentile con quei ricci delicati, il sorriso che ti rassicura sempre il cuore. Ecco il suo sorriso somiglia sempre ad un abbraccio ed è come se ti dicesse: “io ci sono”. Ieri sera ci ho costruito un portiere di movimento su quel viso e se non l’avessi fotografato come qualcosa di raro, di rassicurante chissà come avrei fatto alle 2 di notte.
Te lo dovevo. Perr la pazienza che hai sempre avuto con me, con noi ma soprattutto per quella serie di ricci che ti scendono sulla fronte ed a me fanno sempre venire in mente un punto di domanda.
La domanda è, tu come stai?