Spesso si ama qualcosa, qualcuno, perfino una idea senza essere ricambiati. Ancora più spesso ci si chiede il perché di una passione che brucia tutto al suo passaggio come un incendio che consuma un bosco intero. One side love lo chiamo gli anglosassoni ed è anche un qualcosa intrecciato nella profondità dell’animo della cultura asiatica. S’avverte la necessità di farlo, senza riuscire mai a spiegarlo davvero.
Ancora più di frequente cerchiamo, tutti, risposte a quelle domande che ci facciamo di continuo. Capita così che seduto sui gradini a bordo campo in un sabato di sole freddo e luci di traverso, mi chieda: “che ci faccio qui, perché m’importa”. D’un gruppo di giocatori troppo giovani per aver maturato la capacità tecnica, troppo lontani dalla conoscenza tattica.
Forse per rispondere alla loro domanda collettiva: “ci hai fatto delle belle foto?”. Una frase piena del bisogno d’essere visti, raccontati. Di esistere oltre la ristretta sfera personale. Più probabile che sia qui perché questo è l’unico posto dal quale posso osservare un momento nel quale tutti i sogni sono possibili. L’istante di vita quando il passato è troppo breve per essere importante e lo spazio di tempo davanti sembra infinito.
L’età nella quale credere riesce più facile. Così i sogni non sono mai troppo grandi, il pallone non è mai troppo lontano, il tiro non è mai troppo fuori dallo specchio della porta. Quando noi è più importante di ogni singolo io, come ricordava Roger Byrne ai suoi compagni del Manchester United. Quello United che non invecchierà mai più, tragicamente spezzato su una pista di decollo gelata dall’inverno tedesco.
Non ricordo i loro nomi. Giusto così, bastano i loro volti. Se poi l’imparo diventano importanti e se restano distanti è più facile allontanarsi. Perché la vita non è quella che si è vissuta, ma quelli che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla. Loro sono i personaggi d’un racconto. Il mio racconto. Fa così la sua comparsa il piccolo portiere con la maglia rossa lunghissima. C’è chi gioca con i capelli che cadono fino a coprire il numero e chi ha le trecce che svolazzano ad ogni scatto in avanti.
C’è chi anticipa sempre il gioco, con la medesima espressione in viso, quella di una bimba impegnata in un difficile compito in classe. Una passione che sgomita, anche tra le facce imbronciate, nel mezzo dell’odore delle divise lavate con un detersivo troppo forte e troppo a buon mercato. Con gli occhi pieni della sottile paura di sbagliare e soprattutto di non giocare.
L’altra parte del campo è disseminata degli stessi ingredienti. Solo i visi sono diversi, almeno un po’. Più che avversarie, sono sorelle con indosso una maglia indosso diversa che per una quarantina di minuti cercano di buttare il pallone come possono nella porta, non la propria si spera.
Non ho mai fatto una foto di squadra, una che sia una. Tipo quelle dell’album Panini, con i giocatori in piedi e quelli inginocchiati davanti. In quel sabato lunghissimo però ho chiesto loro di mettersi in posa come una di quelle squadre. Ovviamente non ci sono riuscite. M’hanno regalato però una istantanea che ho poi stampato, come fosse una vecchia polaroid.
Quando mi chiederanno perché scrivo di loro, scrivo di questo racconto del quale davvero non importa davvero a nessuno, potrò rispondere con quella foto. Il veder scorrere i loro sogni scivolare sul parquet, inciampare, soffrire e perfino piangere è l’unica risposta possibile a quella domanda che mi facevo all’inizio. È tutta lì. In quella foto piena di sorrisi felici.