È sempre una questione di soldi

Il calcio a 5 italiano vive al di sopra delle sue possibilità? Questo è un quesito interessante, al quale si può offrire una risposta economica e una emotiva. Se il calcio a 5 rappresenta per i presidenti, coloro che investono denaro o ne raccolgono da sponsor, un impegno collaterale molto simile ad un hobby, questo tipo di attività è per natura: senza prezzo.

La passione per una attività, che sia il collezionare trenini elettrici, alcune locomotive arrivano a costare 400 euro, fino al farsi chiamare presidente, non ha un cartellino con il prezzo. Non si può apporre una cifra all’amore della gente. Anche se questa gente sono poche centinaia di persone.

Le torbide acque economiche dello sport dilettantistico sono però terreno di coltura per strane attività. Non parlo solo di quelle palesemente illecite. Nel calcio a 5 italiano, ci sono atleti dilettanti che guadagnano mediamente ingaggi che superano quelli di un 19enne tesserato nella Serie C di calcio.

15000, quindicimila euro. Lo stipendio, ingaggio minimo nella Serie C italiana, previsto dalla normativa per un diciannovenne. Nonostante questo, tra i professionisti la moria di club è una endemica malattia che affligge la disciplina. Non pervicace però come quella che imperversa tra i “dilettanti” del calcio a 5.

Per tentare il salto in Serie D di calcio sono necessari circa 150 mila euro, per un paragone con il futsal, con il doppio di quella cifra si vince uno scudetto di calcio a 5 femminile. Nella prima istanza però si è ad un passo dal calcio professionistico, nell’altro… niente nell’altro non accade nulla.

Se si analizzano le cifre che circolano nel fuSTal si ha l’impressione che si continui a spendere e spandere come se lì fuori ci fosse un bisogno del prodotto calcio a 5. Non è così. L’assenza di un registro obbligatorio degli ingaggi come nei professionisti impedisce di accedere a dati oggettivi per quello che concerne gli ingaggi degli atleti dilettanti.

Sebbene 1 milione e mezzo per tentare la scalata allo Scudetto del futsal al maschile, 300 mila per quello femminile, possano sembrare oggettivamente cifre fuori mercato, diventano spiccioli se si confrontano a quelle di altri sport, diversamente minori ma altrettanto formalmente dilettanti.

Per tentare e probabilmente fallire la rincorsa ad uno scudetto di pallavolo femminile sono necessari 5 milioni di euro. Cinque milioni, circa diciassette volte l’impegno di spesa del calcio a 5 femminile. Con tre volte la spesa di uno scudetto di calcio a 5 femminile, circa un milione quindi, si affonda nella zona retrocessione della Serie B di pallavolo femminile.

I rapporti di forza economica sono indicativi anche della notorietà di una disciplina. Lo sport anche per i romantici nostalgici dei tempi che furono, quelli pieni di sputi e bottigliate, era regolato dal potere del denaro. Chi ha più soldi, compra i giocatori migliori e di solito vince.


Meno soldi sono necessari per vincere, più la disciplina diventa terreno per scorribande di occasionali imprenditori folgorati sulla vita della facile notorietà locale. Così la disciplina si scopre prona ai fallimenti delle società, una volta esaurita la loro finalità emozionale.

Saranno sempre le regole di mercato a determinare le sorti di una disciplina sportiva. Più delle eventuali norme federali. Il capitalismo trova sempre una via per aggirare le regole. Se il mercato è molto piccolo i prezzi tenderanno ad aumentare in funzione della penuria di materia prima: i giocatori.

L’irrisorietà relativa dei costi del calcio a 5, tanto al maschile quando al femminile è paradossalmente la ragione della sopravvivenza della disciplina. L’impegno economico limitato permette quindi un avvicendamento anche frequente di nuove figure che si lanciano proditoriamente nel mecenatismo sportivo.

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