Time out.
La squadra ha appena subito il gol del pareggio. Qualcuno sembra lamentarsi di una compagna.
“Non si parla dei compagni di squadra”.
C’è una lezione in quella frase che cambierà per sempre la percezione dell’agonismo in tutte le bimbe in cerchio intorno al loro allenatore. Una di quelle che non s’imparano muovendo il corpo ma semplicemente stando fermi, ascoltando.
Non lamentarti della prestazione dei tuoi compagni, chiediti piuttosto cosa avresti potuto fare di più per aiutare la tua squadra. Una volta scolpita questa ineluttabile realtà nella mente e nel cuore, si diventa atleti diversi, più competitivi. Perché semplicemente si smette d’investire energie in qualcosa sulla quale non abbiamo nessun controllo: gli altri.
“Maybe for a while and I won’t tell no one your name and I won’t tell ‘em your name” è un passaggio del testo di Name dei Goo Goo Dolls. M’ero ripromesso di non usare il loro nome per raccontare di questa prima stagione di futsal. Ma in quella stessa canzone c’è un passaggio che recita: “You grew up way too fast and now there’s nothing to believe” e prima che questo accada, che tutte smettiate di credere, allora forse posso usare i vostri nomi.
In rigoroso ordine di numero di maglia.
2, Alisia. Dawg, che è slang black per dire Bro e suona come Dog. Non le si legge mai il numero sulle spalle, ha una lunga coda che le corre sulla schiena. Quindi si può giocare con i capelli lunghi non raccolti male mie care “giocatrici di Serie A”. Insegue l’avversario con la veemenza di chi ha un compito da assolvere e non ha nessuna intenzione di deludere se stessa o le sue compagne.
Numero 4. Antonia. C’era un po’ di tempo fa una Antonia a calcare quel parquet, allora era meno scintillante di questo. Corsa, dribbling e tiro dalla distanza. Sarà che Tonia è sempre stata un giocatore più abile di quello che lei stessa pensava ma inevitabilmente i miei ricordi sono fuggiti all’indietro fino a quel rigore che solo lei poteva battere in una finale di Supercoppa. Di Turi dal dischetto. Il volto di questa Antonia che spiega: “ma quella è grande e non ci riesco, poi è grossa” mi riporta alla bimba che parla con la sua allenatrice che tranquilla replica: “questo è calcio, uno sport di contatto, se ti spinge la puoi spingere anche tu. Non scoprire la palla, metti il tuo corpo davanti e vedi che non te la prende“. È davvero così semplice Antonia, non sembra ma lo è.
Stefania, numero sette. “Ma non è mancina?” ci si interroga sulla panchina. Una vocina risponde: “no, è destra“. Credo nemmeno Stefania abbia deciso ancora con quale piede preferisce tirare in porta e con quale scendere dal letto al mattino. Ma va bene così. Orgogliosa mi presenta il porta fortuna della squadra, una bambolina di colore, che sembra una action figure. È così impegnata a farsi fare una foto con le compagne che dimentica di dirmi come si chiama.
Numero 9, maglia da pivot, da attaccante sulle spalle: Ilenya. Qualcuno deve aver dimenticato di dirle che è piccola di statura, oppure più facilmente non le importa nulla. Due lunghe trecce e lo sguardo sempre curioso fanno il paio con quel giocatore che va a contrasto con avversarie che fisicamente la doppiano in altezza e peso. Con l’attitudine di chi pensa che sia il suo avversario a dover aver timore dell’evento. Ogni volta che vedo giocatori “piccoli” battersi con quella veemenza vorrei che conoscessero la frase di Mark Twain: “It’s not the size of the dog in the fight, it’s the size of the fight in the dog.“
Veronica esegue un disimpegno difensivo liberandosi del pallone alzandolo e poi rovesciandolo di spalle all’avversaria. Credo d’aver esclamato qualcosa tipo: “ohhhh“. Una voce con un marcato accento spagnolo m’ha rimbrottato: “ma tu non sei qui per fare le foto?” C’ho pensato un po’ e no, non sono lì per scattare foto, anche per quello.
Sono seduto su quei gradoni, per osservare due donne che crescono sportivamente altre piccole donne. Per stupirmi. Di come crescono, parlano, osservano, commentano, giocano e si divertono. Per trovare una storia.