I bambini che giocano

Gli sport sembrano tutti belli, a guardarli da lontano però, dagli spalti ma senza prestare davvero attenzione. Se t’avvicini troppo, inizi a vedere le crepe nell’immagine e la patina opaca. Grattarla via è l’errore peggiore che si possa commettere. Esce fuori poi tutto il resto, quello che con il senno degli stolti, quello del poi, non avremmo voluto vedere.

Se c’è un tempio del calcio a 5 italiano, quello è il Palazzetto Corrado Roma. Il PalaRoma tutto attaccato per quelli che non ne conoscono l’indirizzo ma solo l’ubicazione geografica: “Santa Filomena, uscito dall’asse attrezzato, dietro al Burger King”. Ultima aggiunta temporale, il colosso del fast food, prima nemmeno c’era.

Prima. Quando il palaroma lo potevi scrivere solo minuscolo, non aveva un logo, le docce erano fredde, ci abitavano dentro i piccioni e le balaustre di plastica erano incrinate.
Un tetro intermezzo tra un glorioso preambolo e l’attuale scintillio.

Luca è entusiasta delle sue piccole giocatrici, della scuola calcio. Un entusiasmo fuori scala per qualcuno che ha passato gran parte del tempo a crescere bimbi che giocano a futsal, che organizza il più grande torneo giovanile di futsal al mondo.

L’entusiasmo è contagioso e cerco sempre di conoscerne l’origine. Decido d’andare così in un giovedì uguale a mille altri. Lascio a casa ogni aspettativa, il futsal quello “dei grandi” se m’ha insegnato qualcosa è non investire nessuna emozione nell’apparenza.

Mi siedo sui gradoni a metà campo, quelli che collegano gli spalti al campo, vicino alla posizione del cronometrista. Non devo suonare la sirena, qui l’ho già fatto. Mi fermo ad ascoltare. L’allenamento è ancora in corso.

I bimbi che giocano fanno un rumore diverso da quelli che s’allenano. Distratto da altri mille fatti della vita sembra solo chiasso. All’apparenza. C’è qualcosa di diverso. Saranno i sorrisi, le chiacchiere veloci, i corpi piegati a fare esercizi oppure ad inseguire un pallone che non ne vuole sapere di obbedire e fermarsi.

Sarà che ci sono due donne in campo, due giocatrici che riconosco. Danzano con i bimbi, mostrano loro i passi di questo gioco, mentre si muovono tra conetti, palloni e piccole porte. In quel rumore di fondo, quel vociare di bimbi, avverto un rumore diverso, come di uno scalpello.

Uno scalpello che modella i sogni, dentro a corpi piccoli, maglie d’eroi del calcio, pettorine troppo grandi e emozioni a caso. “Non hai dormito bene, hai nero sotto l’occhio”, un bimbo ad una bimba, imbarazzati entrambi, impacciati. Come le parole che non sanno ancora gestire e le emozioni che non riescono a riconoscere.

La partitella, tutti insieme ad inseguire quel pallone e a calciarlo genericamente in una direzione, quella della porta. Una regolare che ha i pali, la rete. Segno dei tempi. Che non sono né giusti né sbagliati, sono semplicemente questi.

Le luci illuminano un parquet lucido invece d’un campo in terra spelacchiato, l’avrei voluto anche io alla loro età. La mia non è invidia ma ammirazione. Perché non importa davvero su quale superficie corri, l’importante e il dove e soprattutto il perché corri?

Perché si divertono e la risposta che non devo nemmeno chiedere, questi bimbi l’hanno scritta in volto. Non si bagnano, il pallone non sparisce nel buio ma la gioia è ancora quella. Se l’hai provata la puoi riconoscere. Giusto che non sia uguale alla mia, che giocavo per strada. Ancora in strada sarebbe una sconfitta, anche qui è una vittoria.

Prendo il mio taccuino, digitale e scrivo qualche appunto. Non voglio dimenticare niente, uscito di qui il mostro grigio del quotidiano verrà a prendersi il bello per metterci il brutto al suo posto. Qualche foto, “reference” le chiamano gli eruditi, per i disegni.

Grazie a voi piccoli, senza nome. Solo voci, occhi che brillano e corse scomposte. Quel pallone è l’unico amore che non passerà mai. Mai. “Non passerà mai questa fase”, Fever Pitch, non solo un libro ma anche un film, immortale.

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