“Uncle M, why do you like football so much?”
Quando una bimba che ti chiama “zio” perché pare che in certi angoli del mondo sia un titolo onorifico non puoi negarle una risposta. Anche se l’ammetto, “Uncle M” suona quasi come un personaggio dei Griffin.
Complicata da offrire una risposta esaustiva usando solo le parole. Pensavo di essermela cavata con un: “quando ti troverai in piedi nella Kop ad Anfield Road oppure all’Olympic ad ascoltare i tifosi degli Hammers cantare Forever Blowing Bubbles, capirai”.
I bimbi hanno questa abilità terribile: la semplicità. “Quando?” è stata la risposta che m’ha spiazzato. “Sabato prossimo” due parole ancorate all’istinto. Perché le sfide non si accettano, si vincono.
Dodici euro di biglietto del bus, Pescara – Roma destinazione l’aeroporto di Ciampino dal quale parte il nostro volo Ryanair destinazione Liverpool. In tasca abbiamo già i biglietti per la Kop, la curva del tifo di casa. Quelli da 12 sterline, circa 12 euro, potevo optare per quelli da nove ma da lì lei non avrebbe visto quasi nulla. Cinquanta euro dopo atterriamo nella città di Billy Shankly e non dei Beatles.
Difficile distinguere se è piovuto, se piove oppure se è semplicemente un abbraccio umido di una città cresciuta tra il suo porto e un ex zona industriale. Un giro in centro, un po’ con il naso all’insù un po’ in un bar perché c’è un freddo dannatissimo.
Anfield Road. Non l’ha mai vista tanta gente, tutta insieme che cerca di entrare in un solo posto per il calcio. C’è questo rumore di fondo, come un brusio ma più forte, quello di quando in tanti parlano ad alta voce.
Biglietti e dico all’omino dei controlli “It’s her first time here”, lei da più in basso sorride e lui le scompiglia i capelli: “welcome home” con quel pesante accento scouse che ti fa capire che questo è un posto diverso dagli altri. Per una inspiegabile ragione, le mette al collo la sua sciarpa e lei sorride di rimando.
Sul biglietto ci sono tutte le indicazioni per raggiungere i nostri posti. La tengo davanti a me in modo da non perderla nella calca, le stringo le spalle mentre la muovo come accade con i carrelli della spesa in un supermercato troppo affollato.
Intravedo l’uscita sugli spalti, il rumore di fondo è più forte, ci sono i primi cori. Rallento quel tanto che basta perché i miei ricordi di quel medesimo momento si mischino ai suoi.
Spalanca occhi e bocca e non ho idea se abbia inspirato tutto l’aria dello stadio oppure abbia sparato fuori un pezzo d’anima. Si gira mi guarda e sorride. Forse ha capito. Forse.
Ci sistemiamo e mentre vedo formarsi la “sciarpata” che precede “You Never Walk Alone” le chiedo di guardarsi intorno e di prestare attenzione, la massima attenzione.
Non importa quale partita fosse o il risultato finale. “When will we be back?” è l’unica frase che speravo d’ascoltare senza essere sicuro che potesse accadere. La magia di una esperienza collettiva che trascende la peculiarità dello sport ma ha tutto a che vedere con la condivisione delle emozioni.
S’appoggia ad una tradizione laica dell’unica religione davvero planetaria. Mi chiedo se vuol tornare per compiacermi oppure perché l’ho contagiata con quella malattia incurabile che si spande sui gradoni degli stadi, di tutto il mondo.
Non rispondo ma l’abbraccio mentre al bar dello stadio ordino la seconda delle due pinte di una birra italiana perché per chi non fosse a conoscenza la Peroni s’è comprata metà delle birre decenti del pianeta. Più povero di 9 euro ma più felice che mai. Quando abbandoniamo Anfield Road c’aspetta la notte di una città operaia e infelice come un piatto di fagioli freddi.
“It was loud but fun, almost like a Black Pink concert” e non posso chiedere di più e non sarebbe nemmeno giusto. Cento quattordici euro dopo, spesi magnificamente per condividere un ricordo che lei spenderà per il resto della sua vita, che i suoi amici possono comprende e invidiarla anche un po’, per una volta nella vita.