Il calcio è politica, religione. È diritti umani.
La Nigeria è la prima squadra femminile africana a vincere una partita della Coppa del Mondo. Lo fa battendo le padrone di casa dell’Australia. Sotto di un gol le SuperFalcons rimontano e quando arriva il terzo gol al 72esimo. Asisat Oshoala corre per festeggiare sotto la curva e si toglie la maglia.
Un gesto che abbiamo visto ripetere milioni di volte e che di solito si paga con una ammonizione. Asisat sta scrivendo la storia d’un paese dalla grande tradizione calcistica e dalla profonda contraddizione sociale. Volete che gli importi di un cartellino giallo?
Un momento di gioia, per un intero paese. Di solito è così, almeno nel calcio. Ma Oshoala è una donna in un paese nel quale l’islam radicale tenta di condizionare l’intera nazione. I social sono la grancassa giusta per questo scopo. È l’ex Twitter il posto ideale per tuonare contro i costumi, il poco rispetto verso il corano. Non Instagram o Facebook. Perché il traffico dati da quelli parti è un bene costoso e prezioso.
Eppure quel gesto è una icona del calcio al femminile. Mondiali di casa 1999, dieci luglio. Brandi Chastain mette a segno il rigore che permette agli Stati Uniti di battere la Cina e vincere il suo secondo titolo mondiale. Quella foto che la ritrae in ginocchio senza maglietta finisce sulla copertina di Newsweek e Sports Illustrated.
Ad Oshoala è toccato in sorte un destino simile. Allora come oggi per questioni di morale religiosa quel gesto è criticato e anche condannato. “My dad is definitely not happy with my choice of celebration but then again, Life is a collection of MOMENTS”, queste le sue parole su Instagram.
La normalità è sempre scandalosa. Come lo è spesso la felicità. Soprattutto in una donna. In un momento di gioia in molti scelgono di vedere lo scandalo, che probabilmente è solo negli occhi di chi guarda. Come l’ignoranza è solo nelle menti più povere.