Davvero è un problema di altezza?

C’è un ottimo commento alla partita dell’Italia di calcio femminile, quella disputata contro la Svezia che vi invito a leggere. Lo firma Tiziana Pikler. La sua analisi non solo smonta i luoghi comuni sul calcio a femminile ma poggia una attenta analisi su dati tangibili.


L’autrice rimarca le differenze che innalzano la Svezia al terzo posto nel ranking FIFA e riducono l’Italia al sedicesimo e si racchiudono in numeri implacabili. Nella rosa della Svezia, solo sette atlete non superano il metro e settanta, tredici vanno oltre questa soglia e due superano il metro e ottanta. L’altezza media dell’undici titolare sceso in campo con l’Italia è di 172 centimetri.

Le azzurre rispondono non solo con una rosa più giovane ma anche con due giocatrici sotto il metro e sessanta, undici sotto il metro e settanta. Solo nove superano quella soglia e una sola atleta è oltre il metro e ottanta. Media dell’undici titolare con la Svezia, 168 centimetri.

Tiziana Pikler ricorda come in Italia si contino 40 mila tesserate, oltre 200 mila in Svezia. Senza attirare giovani atlete da altre discipline, si è destinati a non colmare mai il gap fisico. Una analisi della Banca Ifis rivela che: “Il volley femminile italiano, dilettantistico, conta oltre 250.000 atlete che valgono oltre il 70% dei tesserati complessivi della Federazione Italiana Pallavolo. I ricavi medi generati dalle società di pallavolo si assestano sui 2 milioni di euro e risultano superiori ai ricavi medi dei club calcistici del 122%.”

“Questo maggior livello di ricavi si traduce in un maggior costo medio per gli stipendi: la differenza, tra la Serie A1 di volley e la Serie A di calcio femminile è di circa 3,5 volte, con lo stipendio medio di una pallavolista di Serie A1 che raggiunge 100.000 euro ed è oltre 5 volte superiore rispetto allo stipendio percepito da una calciatrice.”

Dell’articolo di Tiziana Pikler non è solo apprezzabile il rigore dell’analisi basata sui dati e non sugli umori. La sua chiusura finale è il centro d’un problema che investe non solo il calcio ma anche il suo cugino calcetto. Non è un anatema, non è una profezia di Cassandra. È il racconto della desolante prospettiva che attende quelle discipline che non sono pronte al futuro.

Quella vista al Regional Stadium di Wellington non è la sconfitta di un’idea di gioco ma di un intero movimento che rischia di implodere su sé stesso se continuerà a pagare un gap così importante che, anzi, nel corso del tempo rischia di allargarsi ancora di più se non arriveranno – in fretta – strategie mirate e piani di sviluppo concreti.

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