Vincere, con solo stranieri in campo

Il Lecce vince il titolo di campione d’Italia Primavera 1. Bette in finale la Fiorentina di Aquilani. Potremmo concludere con un laconico “è quindi?”. Il “quindi” si manifesta quando andate a controllare l’undici iniziale dei salentini. Non c’è un solo giocatore italiano tra i titolari.

Aquilani che guida la primavera viola si è espresso un vago “non è giusto” quando gli è stato chiesto di esprimersi sull’argomento. Il ds del Lecce, il leggendario Pantaleo Corvino ha liquidato la questione con un laconico “da noi giocano i migliori”.

Nel calcio dopo anni di fallimentare protezionismo, contro l’impiego di giocatori stranieri, s’è deciso di regolamentare in qualche modo l’afflusso massiccio di talento dall’estero con norme che finiscono per far giocare atleti non in base alla loro capacità ma alla loro data di nascita.

L’anagrafe più importante del talento. Qualcosa di simile accade anche nel calcio a cinque. Dove i “panda nazionali” giocheranno non perché sono i più bravi ma perché necessari a norma di regolamento. A quelli che pensano “ma poi la nazionale?” andrebbe ricordato che i presidenti che investono soldi nella disciplina lo fanno per gloria personale e non per alimentare il successo di altri.

Certo “la gente”, il “popolo”, il “territorio”. Sono un prezioso effetto collaterale a breve termine della vittoria, non lo scopo. Vincere con squadre che schierano per minutaggi importanti nelle partite decisive per il titolo esclusivamente giocatori naturalizzati o stranieri sono un indicazione di quanto siano volatili certi slogan quando contano i risultati.

Il Lecce campione d’Italia nella categoria Primavera, ricorda a tutti che il talento non si imponga dall’alto. Quanto giocare se sei “scarso” non ti aiuta a diventare “fenomeno”, probabilmente semplicemente meno scarso. Se il calcio ha ormai una impronta professionale, quindi capace di recepire con meno ritrosia parole come “investimento” e “costo”, il futsal vive anche disperatamente ancorato alla sua dimensione familiare.

Nel calcetto a cinque sembra quindi più complesso dire ad un giocatore italiano: “Caro Claudio, non giocheresti nemmeno se ti chiamassi Claudinho”. Vale ovviamente anche per una “Claudia”. Se una disciplina decide di essere anche uno spettacolo, allora in campo vanno quelli capaci di garantirlo.

Altrimenti è un bellissimo passatempo che ci entusiasma e dove giocano tutti perché s’impegnano ed è giusto ripagare i sacrifici. Se non lo è, allora il Profeta Pantaleo ha ragione: giocano i migliori. Questo nel calcio a cinque corrisponde però anche ad una presa di coscienza degli atleti, tutti.

Da quelli che baciano le coppe senza aver giocato un minuto, a quelli che stanno seduti in panchina a indossare la pettorina: non siete bravi abbastanza. Non giocate per quella ragione e se però accettate la condizione di “necessario alla distinta di gara” questa è una scelta personale libera ma a detrimento non solo della vostra abilità ma dell’interno movimento.

Colpa di quelli che pur di giocare, di passare qualche minuto più in campo non scelgono di migliorarsi ma applaudono al protezionismo. Preferiscono che intorno ci siano altri meno bravi, per decreto e per luogo di nascita, così da non sfigurare e poter poi raccontare: “ho vinto un titolo”. Responsabilità anche di quelli che per una coppa di plastica in più s’adattano a tutto, anche a schierare in campo un ornitorinco e un gallo cedrone. L’importante è cullare l’ego.

Il futsal come il calcio non è delle organizzazioni, delle varie federazioni. È dei presidenti, quelli che con i loro soldi foraggiano lo spettacolo che quelle federazioni semplicemente organizzano. I presidenti del calcio l’hanno capito e ottengono sempre più libertà regolamentare, sempre più spazio per il business.

Negli sport minori? No.

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