Non importa quanto ma quando. Una questione di tempo stretto che fatica spesso a fare spazio alla voglia di vincere. Sugli spalti della Coppa ci si rivede tutti, anche quelli che sono solo un viso vagamente conosciuto.
Il tabellone è un giudice inappellabile e capita che lo sguardo si pianti li come se mancassero ancora sette secondi alla fine, di una stagione irripetibilmente meravigliosa come quella appena passata. In campo si rivede Cecilia, indossa la casacca della Lazio quella con il numero sei. L’avevo lasciata in lacrime per un infortunio e la ritrovo a correre da capitano. Come potevo immaginare quello che sarebbe successo dopo.
Le processioni sugli spalti assomigliano a quei lunghi venerdì ma senza passione. Il rito del saluto di una tribù politico sportiva che si riconosce ma si studia. L’intervallo delle partite come una ricreazione al liceo ma forse anche alle medie.
I visi in campo sono tesi e raccontano di quanto le donne vivano visceralmente, l’agonismo e non solo quello sportivo. La carica emotiva che la Lazio femminile di calcio a 5 riesce ad accumulare senza farsene consumare e che poi riversa selvaggia in campo, riesce a stupirmi nella sua unicità.
C’è un accidenti che poi a spiegarlo si fa anche fatica usando anche parole ed immagini. Le foto sembrano una eccessiva intrusione, un eccesso di voyeurismo. La felicità dura poco, sempre. L’istante di una torsione del ginocchio. Nella direzione sbagliata.
Ci sono le urla, le lacrime, il capannello di compagne, amici e personale sanitario. Arriva poi lo sguardo quello puntato lontano e non riesco a capire se è al futuro che l’aspetta o al passato che è appena trascorso. Il ginocchio si gonfia come gli occhi e il dolore, quello di una sola giocatrice diventa un sentimento comune.
Non lenirà la sofferenza quell’abbraccio immaginario per quanto forte possa essere. Certo però potrebbe far sentire Cecilia amata, da una famiglia più grande della sua squadra. Non capita spesso di raccogliere l’affetto di tutti, compagni e avversari.
Qualsiasi sia il nome della squadra del capoluogo di provincia abruzzese, ovunque abbia giocato, perfino a Chieti, la Coppa Italia non è la sua manifestazione. Una sorta di malattia geneticamente trasmissibile. Che attraversa denominazioni, presidenti, patron e resta attaccata alla matricola sportiva. Qulla che le impedisce spesso di passare il primo turno di Coppa Italia.
Ora sono due anni di fila. Quest’anno cade per mano dell’artefice dell’unico successo del “fu montesilvano”. Gianluca Marzuoli, pescarese doc, skipper dell’unica coccarda tricolore mai cucita sulle maglie della società che con le righe biancoazzurre addosso, ma anche il rosso e altri colori fashion.
Passa e probabilmente alzerà il trofeo una squadra costruita per vincere, se poi non sport non c’è certezza, con i giusti investimenti si può coltivare una ragionevole possibilità di tagliare dei traguardi sportivi. Nello sport dilettantistico quanto in quello professionistico si ottengono risultati spesso in proporzioni agli investimenti.
Nel solco di una tradizione che s’è vista a Statte e poi a Terni, che ha animato Margherita di Savoia, la squadra neroverde trasferisce parte di una collettività sui gradoni dei palazzetti. Rumorosa, colorata, umorale.
Un palazzetto rumoroso è meglio di uno silenzioso e di quelli ce ne sono già in abbondanza durante la stagione. Il culmine della festa s’approssima a grandi passi, arriverà ma mai abbastanza in fretta