L’italia di futsal maschile vive la sua seconda ricostruzione di fila. Sceglie finalmente di percorrere la strada che la porta a sfidare i migliori d’Europa e del Mondo, contemporaneamente.
Sebbene il risultato sul campo come ha ricordato il CT dell’Italia Bellarte sia poco importante: “Il risultato non lo guardiamo neanche, è stata una partita commovente. Quando eravamo pari, a due minuti dalla fine abbiamo voluto mettere il portiere di movimento per provare a vincerla”.
Se già in tanti si soffermano sul racconto pedissequo del cartellino, forse è possibile osservare e commentare come l’evento viene raccontato. Confrontare la narrativa italiana e quella portoghese. Coincideranno? Spoiler: no.
Come hanno fatto gli azzurri, che nelle ultime stagioni hanno faticato in campo internazionale, a restare attaccati ai bicampioni portoghesi. Tanto da pensare di poterla anche vincere? Questo il sunto del racconto a tinte azzurre dell’ultima partita quella della quasi impresa sfiorata.
“Dopo il 3-0 di venerdì, gli Azzurri replicano la grande prestazione, addirittura migliorandola, tenendo inchiodato sullo 0-0 il Portogallo fino allo scadere. Partita di grande abnegazione di tutta l’Italia, che colpisce due legni (entrambi con Merlim) e prova a vincerla mettendo il portiere di movimento a cento secondi dalla fine. Una mossa che genera il gol decisivo di André Coelho, ma che nulla toglie alla prestazione della Nazionale. “
Come racconta la stampa portoghese, i quasi gol azzurri? Il rischio d’ecatombe contro gli azzurri. Senza lasciare spazio all’immaginazione ci raccontano che è stato: il “Muro Italiano”. Scritto esattamente così, a tenere gli azzurri agganciati all’incontro. Al quale aggiungono il rigore fallito, quando di minuti alla fine ne mancavano nove da Bruno Coelho e una generalizzata imprecisione sotto porta del Portogallo. Criticando il Portogallo per aver lasciato in bilico una partita che andava chiusa prima.
Nel particolare sottolineano il genio di Merlim, volto molto noto sui loro parquet e la straordinaria prova dell’estremo difensore transalpino Lorenzo Pietrangelo, così almeno sostiene la penna digitale di Francisco Paulo Carvalho.
Non sono nemmeno avari di critiche. Al CT Braz viene rimproverato un primo tempo concluso sullo zero a zero, nel quale per lunghi tratti ha schierato in campo:
Kutchy, Hugo Neves, Rúben Teixeira e Gonçalo Sobral. Sapete cosa avevano in comune gli atleti di questo quartetto di movimento?
Non avevano mai giocato insieme in nazionale. In quattro sommano due presenze con la nazionale maggiore e sono tutte di Hugo Neves nella recentissima Finalissima. Età 20 – 22 anni, come ha ricordato il commentatore portoghese in diretta, in comune hanno il percorso compiuto dalla under 13 fino ad oggi. Per i più giovani di quel quartetto si trattava di 6 anni di incontri principalmente contro i pari età spagnoli.
Per i portoghesi insomma, abbiamo pressato di più, parcheggiato meglio l’autobus davanti alla porta. Una versione meno romantica di: “partita di sofferenza e abnegazione”. Questa amichevoli per tutti i giovani nazionali coinvolti sono un momento di crescita, d’approccio alle competizioni internazionali, speriamo ce ne siano altre di questo livello per i giovani giocatori azzurri.
Le due nazionali si trovano in posizioni opposte nella catena alimentare del futsal mondiale, sono accomunate però dal un momento di transizione tra generazioni. Nello sport agonistico non c’è un modo efficace per bruciare le tappe se si vuole costruire un programma che regga alla sfida generazione, che passare dalle sconfitte. Senza che queste siano eroiche, meravigliose, stoiche e tutti gli aggettivi che vi vengono in mente nel tentativo di farle sembrare diverse da quello che sono: sconfitte.
La narrazione degli eventi spesso è funzionale a creare un contesto ambientale intorno ai protagonisti. Se per l’Italia s’è scelto “il grazie lo stesso”, per il Portogallo la narrazione preferita è stata “essere giovani non è una ragione per essere inefficaci sottoporta”.
Creando intorno alla nazionale una serie di aspettative altissime, un senso di responsabilità, un peso non solo emozionale della maglia. Non un traguardo ma un biglietto d’ingresso. Non una meta ma una metà.
Si sposta così l’ambizione degli attori di un movimento. Non è più sufficiente essere convocati, indossare la maglia della nazionale. Vincere diventa l’imperativo almeno morale. Così da rendere più netto il confine tra “imparare dalle sconfitte” e “imparare a perdere”. Può sembrare una differenza linguistica quando invece rappresenta un abisso culturale.