Si è appena chiusa la prima stagione della Kings League. Il Camp Nou è stato il teatro delle finali. Novantamila spettatori si sono raccolti sugli spali per l’evento. Sebbene a prezzi accessibili, i prezzi dei biglietti oscillavano tra i 10 e i 60 euro, si è trattato di un risultato straordinario per un torneo che tre mesi fa non esisteva.
Mezzo milione di spettatori di media, sui canali Twitch, YouTube e TikTok per un torneo di calcio a sette prodotto con la qualità degli eventi di calcio mainstream. Dove si cela il business della Kings League?
Come fa un torneo di calcio a 7, dove il Kun Aguero si presenta in campo con una maschera da pagliaccio e i suoi compagni di squadra sono noti influencer, oppure personaggi che hanno vinto una sorta di concorso, a finanziarsi?
La risposta alla domanda è: contratti di sponsorizzazione. Secondo un report del quotidiano spagnolo El Confidencial, rappresentano il novanta per cento degli introiti del progetto. Ci sono brand disposti a investire oltre un milione di euro per comparire negli eventi della Kings League.
Il prodotto è brandizzato in ogni suo aspetto. Le divise degli arbitri sono appannaggio di Grefusa, il VAR da Xiaomi e le carte a sorpresa sono appannaggio di Spotify. L’evento è stato prodotto e commercializzato con l’intento primario di intrattenere.
Le squadre sono diventate collettrici di sponsor, si sono impegnate a vendere gli spazi sulle maglie, sulle maniche, sui pantaloncini. Gli streamer che seguono la squadra così come l’ex calciatore della preside rappresentano certo un “selling point” importante per le aziende interessate ad investire.
Com’è che il calcio a 5 in Italia fallisce così clamorosamente a fronte di un prodotto come la Kings League che ha costi di produzione altissimi e non ha la tradizione storica di una vera disciplina sportiva?
La risposta anche qui è abbastanza semplice: intrattiene. Rivolgendosi ad un pubblico estremamente preciso, reattivo e planetario. Il successo è stato così folgorante che a maggio verrà lanciata la Queens League e una versione per bambini che dovrebbe chiamarsi Prince Cup. Previsto lo sbarco in altri paesi del progetto in una sorta di franchising sportivo.
Il calcio a cinque in Italia anche se cerca di ribrandizzarsi come futsal, resta il calcetto. Inchiodato da una legislazione sportiva che gli impedisce di essere business e da una dirigenza che sembra incapace di restare al passo con i tempi. Aggrappata disperatamente alla dietrologia della squadra-famiglia, del progetto del territorio come se si trattasse di una pellicola cinematografica degli anni 70.
Il successo della Kings League dimostra che c’è spazio per guadagnare nell’intrattenimento sportivo. Il futsal italiano da parte sua mostra ancora una volta di non aver compreso cos’è oggi lo sport: un prodotto di consumo.