Arrivare primi

Il futsal italiano si racconta spesso come se fosse il calcio, lo fa anche talvolta inconsciamente. Probabilmente perché la narrativa calcistica permea ogni angolo della comunicazione sportiva. Accade così che ci si riferisca al vantaggio di giocare tra le mura amiche, con il supporto del pubblico come se non si giocasse in tensostrutture davanti a una manciata di addetti ai lavori e parenti. Oppure peggio, in palazzetti desolatamente deserti.

Si parla di campioni d’inverno, di mezza stagione, primaverili. Come se non ci fosse una post season, playoff e una serie finale di misere tre gare. Come se questa disciplina non avesse alcuna storia, nessuna che racconta di squadre che hanno dominato la regolar season e poi non hanno vinto lo Scudetto. La Lazio delle invincibili, l’Isolotto, la Ternana.

Dimentichi dei fatti. Se la squadra che domina la regular season è davvero la squadra più forte, festeggerà lo scudetto in gara due. Indovinate dove si gioca gara due? Nel palazzetto di casa degli avversari della finale. Nonostante questo ci si affanna a parlare di vantaggio di giocare in casa, come se gli spalti fossero davvero gremiti da ultras, come se si giocasse Partizan – Stella Rossa oppure Virtus – Fortitudo.

Come se una delle due squadre dovesse giocare al Boston Garden, quello reso tra i più inospitali arene di basket al mondo da un pubblico aggressivo e incivile. Condito dalla leggenda d’un folletto malvagio che abitava il ventre della struttura edificata in una delle metropoli nella quale la questione razziale e dei diritti civili non s’è mai risolta.

Quando si applica una epica del tutto contestualizzata dal reale, allo spettatore occasionale del futsal che s’avvicina solo per l’evento topico della stagione si trova ad assister all’effetto “finale dell’Intercontinentale a Tokyo”. Spalti gremiti ma quello che ascoltate non è tifo è rumore di fondo.

Perché non ci sono gli ultras, non quel tipo di archetipo culturale. Un po’ per spocchia, “non siamo il calcio” al quale andrebbe ribattuto “per questo non vi conosce nessuno”. La conseguenza è che talvolta dagli spalti s’ascoltano tamburi, se si è fortunati e cori “da curva” vecchi di almeno vent’anni.

Derubricata la questione: aiuto del pubblico come un mero eco sconclusionato che arriva dal calcio, resta quella meramente sportiva di campo. La questione della regular season e della sua funzionalità affligge tutti gli sport che la impiegano. Inevitabilmente le partite che contano si riducono ad una manciata.

Nelle competizioni universitarie USA viene applicato lo “strenght of schedule” SOS. Definisce la difficoltà del calendario sportivo di una squadra comparato agli avversari che affronta e nel loro ordine temporale. Nulla che possa probabilmente interessare uno sport a dimensione sociale, come il calcio a 5. Tuttavia esiste la possibilità di generare un calendario e una classifica basandosi sul SOS.

In questo momento storico del calcio a 5 italiano, arrivare primi non ha alcun peso reale sulla competizione sportiva. Perché quei fattori che ne determinano l’importanza, semplicemente non esistono. Non c’è alcun tangibile fattore campo a meno di non considerare l’effetto viaggio come determinante. Le dimensioni del campo? Se non ci fossero più deroghe che regole nella disciplina del calcetto saponato a cinque, non sarebbe nemmeno questa una questione da dibattere.

La regular season e la sua classifica restano un lunghissimo preambolo alla Post Season. Nei play off si determinano le fortune di una squadra. Le disgrazie invece quelle spesso si decidono già ad inizio stagione, esaminando con attenzione i roster delle squadre. Aleggia una domanda: che classifica si otterrebbe esaminando solo gli scontri diretti delle squadre che accedono ai play off?

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