Giù nello Sprawl

Per gli ignari e gli ignavi, Giù nello Sprawl è il titolo di una pubblicazione per il gioco di ruolo Cyberpunk 2020. Liberamente tratto dai libri che compongono la trilogia dello Sprawl, di William Gibson. Lo Sprawl è sinonimo d’espansione urbanistica incontrollata, di zona malfamata. Questa storia non ci porta uno dei futuri possibili immaginati dall’autore canadese.

Fino ad una periferia, villa Caraza, Lanùs, Argentina. Villa per gli argentini è l’abbreviazione per “villa miseria”, una zona povera della citta. Una di quelle che crescono come alghe intorno alle fabbriche.

La notte s’è allungata sulla città da troppe ore. L’ultimo turno di molti operai è appena terminato. C’è una palestra, che sembra più un magazzino, con le pareti scrostate il tetto in lamiera. Una di quelle costruite nel vano tentativo di nascondere la guerra sucia di Videla e poi abbandonate al loro destino.

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L’angoscia da queste parti la puoi quasi toccare, come una melassa appiccicosa resta attaccata a tutto. L’inflazione sta per raggiungere il 100%, il Fondo Monetario Internazionale si prepara all’ennesimo fallimento economico del paese. Mentre in Quatar si gioca il mondiale dei ricchi e degli sceicchi, una piccola folla raccolta intorno all’ingresso di questo altro mondo come davanti all’armadio che porta a Narnia.

Non c’è la penna di C.S. Lewis a ritrarre questo posto. Forse c’è più Bruce Sterling, sicuramente non c’è Edmondo De Amicis. Lungo le linee laterale sono accatastate persone, molte le donne. Com’è possibile che alle tre del mattino ci sia così tanta gente in una vecchia palestra ai confini del mondo.

Si gioca a futsal. Per denaro. Quelli che s’apprestano a scendere in campo, hanno talento, tanto. Basta qualche giocata ed è chiaro che questi operai che hanno appena timbrato il cartellino, sono giocatori veri.

Qualche accidenti della vita li ha portati fino a qui. Viene da chiedersi quanto talento sia rimasto incastrato tra le maglie di una vita nella quale è necessario sopravvivere prima di poter sognare. Queste partite, questo campo rispondono ad una domanda esistenziale: perché l’Argentina crea così tanti talenti?

La risposta è dolorosa: disperazione. Quelli che giocano in queste partite, lo fanno per soldi, per averne abbastanza per sfamare la famiglia. Non si scommette per gioco, si gioca per la vita. I soldi, quelli raccolti da ogni squadra rappresentano il premio al termine dell’incontro.

Premio distribuito poi nella misura equivalente per ogni giocatore, in rapporto al denaro investito. Non c’è solo in palio il denaro dei giocatori. C’è una fitta trama di scommesse tra i presenti, tutte rigorosamente illegali. In questa, come in tante altre periferie del mondo, il confine tra lecito e illecito rappresenta una differenza che nessuno può davvero permettersi.

Se vuoi sopravvivere in questo genere di competizioni è meglio che tu sai bravo, davvero bravo. Qui non ci sono medaglie, coriandoli, interviste e coppe. La competizione torna primordiale e proprio per questo è il talento l’unica discriminante. Niente tattiche, niente palestra con attrezzature all’avanguardia. La fabbrica è la loro palestra.

Vincere è un momento di riscatto, l’attimo nel quale quella disperazione si placa o semplicemente smette di gridare così forte. In questo angolo di futuro, incastrato malamente nel presente. Sulle pareti di questo posto si trovano scritte con la vernice più risposte che in un manuale per allenatori o direttori sportivi.

Quando sei con le spalle al muro, quando non hai nulla, nemmeno un posto in cui tornare puoi solo andare avanti. Perché il rischio dell’ignoto è una minaccia che spaventa meno della povertà. Tra quei muri, s’è fermato più talento di quanto noi ne potremmo mai produrre nelle linde scuole calcio, fatte di diagonali e schemi.

Ancora una volta sono gli ultimi ad essere la salvezza anche sportiva di quelli che si trovano in vetta, quelli in fondo al treno sono la speranza di quelli che occupano le carrozze di testa. Si, come in Le Transperceneige, la graphic novel francese che racconta d’un futuro che forse stiamo già vivendo.

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