Il Giardino delle Parole

C’è chi prova a perdersi, a fare altro, perfino trovarsi dentro ad un campo con una rete nel mezzo. Ma c’è una felicità che non puoi negare nemmeno a volerlo. “Non desidero fare altro, c’ho provato a smettere e a fare pallavolo.”

Anime, si lei. Quella con indosso la maglia numero sette, ha anche una voce ci vuole un po’ per me prima di riuscire a sintonizzarla sul viso. Perché sembra che arrivi da qualche parte più in profondità, come se le parole per diventare suono percorressero una via tortuosa.

“Mi diverto.” S’allarga questo sorriso che sembra proprio uscito da uno di quegli anime di Makoto Shinkai. Sapete com’è che si distingue un giocatore, di qualsiasi sport, da questa semplice ma solo in apparenza, risposta: “mi rende felice”.

Hanno sovente un incipit, queste storie, dannatamente simile. Un fratello che gioca, la sorellina al seguito e poi come accade così lui smette, lei resta. Inchiodata a quel campo, con quel pallone al piede. Felice così ad inseguirlo in giro per il campo.

Il parquet è un posto diverso, lei è curiosa e le sue domande arrivano come un fiume in piena. Perché vuole sapere, capire. La donna che vorrà diventare se conserva quella bimba curiosa nel cuore, potrà percorrere felice qualsiasi strada sceglierà. Le getto in faccia una di quelle complicate alla sua età e lei risponde senza esitare. “Cosa vuoi fare da grande?”

Nell’instante in cui guarda davanti a se sicura, di quello che vuole diventare. Fotografa, di ritratti. Non è uno di quelle idee nelle quali si inciampa quasi noia. È un desiderio, un moto a luogo. Vuole cercare il suo posto nel mondo e non il profitto. Per quel brevissimo momento forse è vero, questa gen z: “se li lasciamo fare, salveranno la specie”.

Chiara è parte di una squadra assemblata con caparbietà da una di quelle donne dure e testarde come il mare, in tempesta. Una storia che inizia come fosse un messaggio di spam. Uno di quelli che puoi ignorare, come un fastidioso granello di polvere nell’occhio. Ma non per molto.

Lei vi ha voluto qui, si anche te. C’ha creduto come solo i folli possono fare. Ora dalla panchina suona con quella voce da sirena antinebbia che diventa un faro nella tempesta. La voce del Comandante che ti dice che andrà tutto bene. Quella del Capitano che non ti molla e scende in campo con te.
“C’ha una voglia di giocare, la senti eh”. Ersilia ti sei accorta vero che ti guarda e t’ascolta questo gruppo di giocattoli rotti raccattati quasi a caso.

“Volevo il quattro ma l’avevano già preso, nuova avventura e quindi nuovo numero”. Sei sicura di avere solo diciotto anni? Oppure diciassette, vero che hai provato già a ringiovanire così? Il sette è il numero di Marc Overmars, ma sei hai quella maglia indosso, quei colori allora è il numero di Rocco Pagano. Paolo Maldini disse di lui “è l’avversario più difficile che ho mai incontrato”. Hai una bella responsabilità, anime.

C’è questa consapevolezza felice, nella sua voce, comune a tutte. Sanno di essere quello che sono, del perché e del quando, invece di pretendere d’essere qualcuno di diverso. La sua voce si riempie dell’orgoglio del paese, quello fatto di case basse, di giardini con il recinto di ferro battuto, le strade dritte e a croce, il bar che chiude alle sei di sera.

“Vale la pena, compresi i dolori”. L’attaccamento alla dimensione che sente più sua, quella nella quale è tutto vicino ma senza esserlo troppo. Immersa in una stagione di assoluta incoscienza. Nella quale imparate insieme a giocare, quando è tutto nuovo anche le sensazioni.

Lebron James, di se una volta disse: “Mi chiamo Lebron James, sono di Akron, Ohio. Non dovrei essere nemmeno qui”, rispondendo alla domanda se sentisse la pressione di giocare tra i professionisti. Quando ti chiedo delle sconfitte la tua riposta mi ricorda quella frase, ogni volta che ti vedo concentrata a giocare.

“Non dovresti essere qui” e invece eccoti impegnata a sorridere e il mondo sembra meno brutto, anche se solo per un paio d’ore. Sorridente insieme, con il tuo capitano ma scritto con la lettera c piccola e il tuo portiere che ammette i suoi errori ed è già tanto. Ti sfili le lenti a contatto e inforchi gli occhiali mentre intorno a te e alle tue folli compagne di viaggio è fiorito un giardino di parole.

C’è una strofa, d’una canzone alla quale sono arrivato quasi per caso. Ecco, mi ricorda te, mi ricorda voi e quelle donnine altrettanto folli che dagli spalti vi seguono con più foga e trasporto delle loro partite in Serie A.
Qualsiasi cosa accada: “Siete qui e non dovreste esserci”.

“Come on girl, keep your head up. Everybody wanna see you down. You’ve heard it all before but
that’s not gonna stop you now. Heavy heart, pick yourself up even when thеy wanna push you ’round
You’ve heard it all beforе but that’s not gonna knock you down.”

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