Gomitolo d’emozioni

Si. È una risposta semplice veloce, immediata e immensamente più complicata di un no. Gaia è seduta nella macchina che corre veloce verso un palazzetto dell’operosa e opulenta periferia meneghina.

Guarda avanti a tratti, mentre cerca di distrarsi con il panorama che è un susseguirsi di case basse e ordinate. Ha risposto sì, quando le hanno chiesto se voleva ritrovarsi all’improvviso tra i pali, in una partita di Serie A, di futsal femminile.

L’asfalto scorre sotto le gomme, verso compagne di squadra di cui conosci davvero poco, verso avversarie delle quali sai ancora meno. Ti porti dentro la bimba di quattro anni, iperattiva, che il suo papà portava con se al campo del paese.

La tieni stretta vicino al cuore, quella bimba, quando ti ritrovi catapultata in un universo sconosciuto. Entri nello spogliatoio e tremi tutta, perché questa non è solo una occasione è la TUA di occasione.

Le paure però le portiamo incastrate perfino nella trama degli abiti che scegliamo d’indossare, paradossalmente proprio il timore e la paura ti hanno spinta letteralmente fino a li. Da quel gioco iniziato per divertimento al divertimento di giocare.

“Perché senza il calcio non saprei che fare”, hai preso fiato e hai aggiunto “è l’unica cosa che mi tranquillizza che mi fa sorridere”. Forse è una delle risposte più belle che ho ricevuto alla domanda “perché giochi?”

Come lo spieghi al tuo cuore che questa è la serie A e che quella dall’altra parte del campo è l’imbattuta squadra, seconda in classifica. Sembra lo stesso campo nel quale difendevi i pali della nazionale sordi femminile. Le porte sono le stesse, la superficie anche. Il tuo di terreno di gioco di solito è quello grande, da calcio. Decisamente verde.

Una sfida è una sfida e si può solo accettare. Anche se “non so come non m’è venuto un infarto”. A vent’anni c’è tutta l’incoscienza di cui si ha bisogno per dire sì, quando tutti risponderebbero no. Per correre dritto incontro all’ignoto.

Gaia è un gomitolo d’emozioni, di quelli che fai rotolare per dipanare il filo ma te lo ritrovi sempre intrecciato perché forse è la vita ad essere così. La sua partita, quella che intercorre tra i fischi dell’arbitro passa come una panorama fuori da un treno che sfreccia a 200 km orari.

Si fermano però tutti quegli istanti prima d’andare in scena e dopo lo spettacolo. Perché la paura di deludere, il timore e l’ansia la senti attaccata alla pelle e non riesci nemmeno a lavarla via e solo allora va via. Dopo. Quando scegli di conservare degli attimi.

I sorrisi, gli abbracci, i complimenti e gli sguardi delle compagne di squadra, quelle s’aggrappano ai ricordi e non li puoi staccare nemmeno se vuoi. T’aiutano a capire che forse ne vale la pena, che tutti i sacrifici, le rinunce e anche le delusioni hanno un senso, t’hanno portato fino a qui ed è solo l’inizio.

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