Venticinque-Ventuno

Un sabato pomeriggio freddo, come quelli che portano più spesso al bar che sui gradoni d’un palazzetto. In campo piccole donne, di quelle che hanno ancora tanta vita dentro e davanti. Sono come personaggi d’un anime, dei quali ovviamente non ricordo quasi mai il nome.

Forse anche un manga, uno di quelli che inizio a leggere e poi scopro che è una storia che non vorrei finisse mai. Arrivato li solo per curiosità, finendo poi con l’affezionarmi alla storia, alle vicende, a quei piccoli dettagli che importano solo a me e tanto basta. Com’è che qualcosa all’improvviso mi importa?

Perché s’incastrano pezzi di vita come se fossero stati li sempre ad aspettarmi e non li avevo semplicemente notati perché guardavo dalla parte sbagliata. Così parcheggiando davanti al palazzetto mi rimbalzano delle parole che avevo ascoltato solo qualche sera prima: “Se volete vedere solo i vostri beniamini vincere, andate a vedere un film, non è così che funziona lo sport.”

Dopo quaranta secondi le ragazzine in bianco e azzurro sembrano felici come chi ha scartato un regalo sotto l’albero che non s’aspettava ma in fondo pensava di meritarlo, però lo pensava piano piano che non si sa mai.

C’è il capitano che non sorride mai, il portiere sempre triste, la ragazzina con il viso da fumetto jappo, il 10 con le unghie lunghe e il pantaloncino corto. Il quattro con quel viso che sembra sempre sconsolato e le braccia alla vita, nel mezzo del campo come quelle matrone d’un tempo.

Non ho una foto del gol e nemmeno dell’esultanza, perché m’ha fermato quel pensiero che mi sono portato da casa, da una serie tv sudcoreana (la trovate su Netflix, Twenty Five Twenty One, guardatela): “se sei qui solo per vederle vincere, sei nel posto sbagliato”. Lo dovrebbero scrivere fuori dagli stadi, dai palazzetti, davanti alle vite di tutti.

Paradossalmente dopo quel gol ho capito. Sono qui per vedere i miei personaggi preferiti, quelli che sono così improbabili che non puoi che volergli bene, sono qui per raccontare perché dovrebbe importarvi di loro. Perché lo sguardo di Bruna sembra quello della mamma che guarda le figlie giocare.

Perché importa così tanto ad Ersilia tanto da urlare: “è palla piena”, rivolta al direttore di gara con un gesto inequivocabile che indica però, altro. Ana, quella spagnola, ha lo sguardo serio di chi osserva le sue bimbe svolgere un esame. Perché l’altra Ana, il portiere, corre in campo al fischio finale, dopo la sconfitta, ad abbracciare tutte.

Cercano di darvi quello che è mancato a loro. Qualcuno a cui importa, a prescindere. Di voi, con voi e per voi. Perché non dobbiate attraversare altre sofferenze che quelle sportive, quelle delle sconfitte. Perché avrebbero voluto che qualcuno facesse questo per loro e cercano oggi di farlo per voi.

L’abbiamo visto tutti l’errore sul portiere di movimento delle avversarie, sul pareggio. Abbiamo visto tutti l’uscita bucata del vostro portiere sul gol della sconfitta. Ma sapete cosa hanno visto tutti quelli che guardavano davvero?

Che siete rimasta aggrappate alla partita, senza il vostro giocatore di riferimento, con tutto quello che avevate. Con quello che potevate fare, con la consapevolezza che nessuna di voi si poteva nascondere. Eravate tutte, Ersilia.

Per quanto siate decisamente più belle quando sorridete e con le lacrime agli occhi che si riesce ad amarvi un po’ di più. Sarà perché nella vittoria riesco ad essere felice PER voi mentre conosco meglio la sconfitta ed è più facile essere lì CON voi. Nel mezzo della delusione crescono dei frutti strani ma buonissimi, ci vuole solo la pazienza di coltivarli e attenderli.

Siete lo spettacolo più bello di questa mia lunga stagione. Per ogni palla spazzata, per ogni volta che non rimproverate la compagna di squadra, per contrasto affondato come se fosse l’ultimo e anche per ogni dribbling di troppo. Per il viso rosso e non solo per la stanchezza, per gli occhi gonfi, per gli sguardi bassi e per ogni improponibile avvenimento: siete belle così. Magnificamente sbagliate in ogni modo possibile.

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