Metti che non mi ritiro più

Solo una settimana or sono, l’ennesima squadra di calcio a 5 maschile, si ritira dalla stagione in corso. Il fatidico dicembre porta nel calcetto a cinque con se una ineluttabile moria societaria. Quasi fosse una malattia stagionale, l’afflizione monetaria, la penuria di pecunia, all’apparenza improvvisa, colpisce duramente.

Si tratta però di una ciclica occorrenza. Puntuale come la morte e le tasse (è una citazione cinematografica). Perfettamente curabile, con una medicina chiamata fidejussione. Impossibile però da proporre per società che preferiscono assumere “una pillola blu” per un paio di stagioni e poi stendersi sul letto di morte e gli esplode il cuore mentre guardano il portafoglio vuoto.

Perfettamente legittimo e consentito dalle regole rinunciare ad una stagione se non si è più in grado d’affrontarla, soprattutto economicamente. Verrà spero in futuro un momento nel quale si indagheranno anche seriamente le ragioni che inducono a certe scelte.

Un mondo, quello del calcio a 5, che non vuole essere calcetto a cinque, dovrebbe preoccuparsi non solo di fornire le regole, di stilare classifiche, di punire i rei. Dovrebbe assicurarsi che i dirigenti delle società “partecipanti al gioco”, siano davvero edotti circa norme che regolano la disciplina.

Sembra davvero che non siano in pochi ad ignorarle. Completamente.
Se una società rinuncia per iscritto alla propria stagione e questa decisione viene con documento ufficiale ratificata dall’organo di governo, diventa definitiva.

Mettere per iscritto, successivamente un nuovo documento nel quale si chiede di “rinunciare alla rinuncia” non è solo risibile. È comico. Considerare quello scritto un documento, equivale a chiamare gli scarabocchi con un pennarello sul muro eseguiti dal vostro figlio neonato: street art.

Lo potete fare ma tutti si sentiranno obbligati a ridere DI voi, badate non CON voi. Com’è possibile che una dirigenza di una società di un campionato nazionale di seconda divisione (la potete chiamare A con un numero ma il senso non cambia) possa redigere un documento di siffatta gravità sportiva e poi dopo qualche giorno coniugarne uno nel quale s’afferma: abbiamo scherzato.

Quando il futsal italiano rivendica credibilità dovrebbe imporla ai suoi dirigenti a tutti i livelli. Obbligare alla conoscenza, non come opzione e assorbita per osmosi sportiva, ma che sia certificata davvero. Non come nei corsi allenatori di 20 giorni e un esame.

Nulla di tutto questo è un necessità, un requisito di una disciplina a vocazione sociale. Nel sociale s’accolgono un po’ tutti, non è la professionalità il requisito principale, ma la passione vero? Se è così, non vi meravigliate quando fuori dalla bolla del “best sport on earth” nessuno pensa che il calcetto sia davvero uno sport.

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