Il giorno della memoria, celebrato in una disciplina senza memoria, smemorata. Un numero il 21, quello d’un minuto che non esiste davvero perché il tempo di conta all’indietro. Come sembravano non esistere in quella lunga notte dell’Europa, i ghetti svuotati, i binari stracolmi, le destinazioni lontane.
Binario 21.
C’è un bellissimo romanzo di Robert Harris: Fatherland. Un ritratto ucronico di una Germania di fine anni cinquanta (millenovencentocinquanta) padrona d’Europa, con un Adolf Hitler ancora al potere che guida una nazione nella quale nemmeno la fantasia ha il potere di sfuggire.
Il protagonista un investigatore della Kripo (la polizia criminale) ritrova dei documenti all’apparenza banali. Documenti realmente recuperati dagli alleati alla fine della seconda guerra mondiale. In questa realtà possibile, diventano testimonianza d’un passato che nessuno sembra ricordare, come se non fosse mai avvenuto.
L’orario dei treni. Da e per località come Treblinka, Sobibor, Dachau. Composizione dei convogli, indicazione di fumigare al termine di ogni viaggio i vagoni per renderli pronti all’uso. Documenti all’apparenza banali, frutto di una perversa burocrazia.
La richiesta per dei profilati di gomma da 8 millimetri per sostituire quelli da sei in uso negli spioncini delle porte delle camere a gas. Inoltrata come se fosse una richiesta per delle risme di carta. La banalità del male.
Quel minuto non sarà mai lungo abbastanza. Il silenzio sui campi non sarà mai come quello che sembra mischiato alle grida e ai lamenti quando ascoltate il vento freddo del baltico sibilare tra le baracche di Auschwitz. Non avrà mai la forza morale di coprire l’irridente scritta in ferro battuto che recita: “arbeit macht frei,posta sull’ingresso dei campi.
Non basterà mai. Perché la memoria è l’unico elemento che ci permette di guardare al passato, riconoscerne gli errori e provare a non imitarli. Se dimentichiamo, siamo destinati a ripetere quei medesimi orrori. Non errori, orrori.
Quelli che dimenticano sono colpevoli, come i carnefici.