“Sai che gioca l’under 19 oggi, si?”
“Ovvio che no, dove e quando?”
“Vieni a fare le foto allo staff più bello d’Italia”
“Facile così vista la concorrenza…”
La nostra consueta conversazione, che mi porta fino al solito palazzetto in un sabato, lontano dall’aperitivo ma sospettosamente vicino al tempo “del trucco e del parrucco”. “Mal che vada ci bevo poi su”, penso. Inizia la stagione del campionato under 19 femminile, di futsal.
A spingermi sulla linea laterale di questa partite sono Ana, Ersilia e Ana, si quasi una Ana ma al quadrato. Se loro ci vedono qualcosa in queste ragazzine che corrono sul campo inseguendo il loro “stop “, voglio davvero capire cos’è e vederlo anche io.
Numero sette, maglia biancoazzurra.
Perché non conosco i nomi, mai prima. Corre in campo e al primo scatto le vola via l’elastico che le tiene i capelli. Qualche istante dopo sale in marcatura su una avversaria. Ma dov’è che ho visto quel modo di usare il corpo, le mani?
Dov’è che ho visto gesticolare in quel modo?
Dalla tipa seduta, poco in verità, in panchina. Quella che non la vedi subito e quasi si confonde con le sue ragazze almeno con la statura, ma la senti, distintamente come una sirena antinebbia d’una barca che esce dal porto.
Indossa la sette, il numero delle grandi ali, quelle mancine. Corre, lotta e sul viso c’ha stampata questa espressione di chi è impegnata in un compito in classe e vuole fare bene.
“Come si chiama la numero sette?”
“Chiara Masi” e poi segue un emoji con un enorme sorriso.
Chiederò poi in un sabato che è diventato sabato sera, tra birre, football e nachos.
Gol, un piattone a mezza altezza, il gol del raddoppio. Il viso di Chiara all’improvviso si rischiara, non con la solita gioia, quella per un gol. È proprio felicità, di quelle che capita di vedere ritratta nel viso di un anime. Chiara è felice come si può essere per se e con le altre. Fa questi piccoli saltelli che la fanno davvero assomigliare ad un personaggi di un corto d’animazione giapponese.
Sembra uscita da un disegno di Makoto Shinkai, il suo sorriso s’è riflesso sugli spalti, dove si stampa sul viso delle due Ana e si mischia anche allo stupore. È tutto vero, questo gruppo assortito quasi a caso e sicuramente per un fortunato accidenti, somiglia a tratti anche ad una squadra.
Non parla davvero, cioè non sono mai riuscito a sentire che voce ha, sebbene le veda muovere le labbra. Sembra che un personaggio di un film muto si sia mescolato ad un anime con un pizzico di ASMR. Però ha sempre tante domande, quindi ha una voce ed è curiosa di sapere.
Chiara con i suoi capelli raccolti all’indietro che le scoprono il viso continua a ringhiare sul pallone, sulle caviglie, su quello che passa nei pressi. Dov’è che ho visto quella attitudine? Perché quel modo di giocare, quell’atteggiamento mentale mi sembra così familiare?
“Ma v’allenate con loro, tu giochi con loro?”
“Io ho giocato un po’ con loro, quando c’ è gioca “Solde” e anche Ana.”
“Le aiutiamo in campo che è più facile”.
Basta cercare invece di limitarsi a guardare e i ci sono pezzetti di Ana, Ersilia e “Solde” in tutte loro. Chiara però quando si posizione per coprire il pallone o l’avversario somiglia tanto al “Capitano”, quello della prima squadra e della nazionale.
L’esultanza felice di Chiara, quel sorriso che le illumina il viso resta attaccato anche alle foto, nelle fibre delle maglie da gioco, si deposita anche nel cappuccio della felpa. Si riflette perfino nel tiro da cineteca di una compagna di squadra, da dietro alla metà campo, che s’infrange sul palo a portiere battuto.
Vorrei averlo fermato dentro ad una polaroid, una di quelle foto con l’emulsione e i colori analogici. Per raccontare che è successo davvero e ora “ne ho le prove”. Per poterla indicare un giorno e dire: “vuoi vedere com’è un momento di felicità? Ecco è esattamente così. “