Finire la stagione

Dicembre è quel mese che nel futsal permette alle squadre di cambiare il volto di una stagione. Accade che giocatori in partenza percorrano pochi chilometri, per ritrovarsi da lì a qualche giorno prima compagni e ora avversari.

Un convulso periodo, ristretto nel tempo e condizionato da un tempo, quello del Natale che dovrebbe rappresentare una parentesi di leggerezza, ma non per tutti.

Capita nel giro di pochi giorni di scoprire la necessità di trovare una nuova squadra, per terminare la stagione, per non fermarsi. Stretti tra la delusione professionale e quella umana.

“Devi rispettare quel giocatore che cerca di finire la stagione”, con questa frase, la voce fuoricampo del film Bull Durham, racconta allo spettatore circa la decisione del protagonista Crash, di portare a termine la stagione di minor league, nonostante sia appena stato tagliato.

Il suono delle parole che costituiscono l’incipit di questa storia, m’hanno ricordato quella scena. Quella vicenda, così mirabilmente narrata. Sarà che il futsal italiano, al maschile quanto al femminile mi ricorda sempre più spesso lo splendido libro di John Feinstein: “Where Nobody Knows Your Name: Life In the Minor Leagues of Baseball”.

Scendere di categoria, non perché vuoi ma perché devi. Per non fermarti, per non perdere quel tempo per l’agonismo, che nello sport, si esaurisce, inesorabilmente.

In questo inverno pieno di sole, la nebbia arriva a confondere il panorama, le promesse diventano questioni di budget e quella fatica d’allenarsi capita d’avvertirla non solo nelle gambe.

Lo sport, il futsal non sono altro che specchio della società. La riconoscenza non è una moneta che ha grande valore, spesso non ne ha nessuno. Questo è uno dei compromessi che è necessario accettare. Il giocatore come asset, non come individuo.

“Sembra quasi estate”, suona più come proposito che una constatazione. S’avverte nella voce, che mantiene quella cadenza piena di pause di chi riempie le poche parole con più significato.

Scendere di categoria, continuare a giocare, con quel piglio dei bomber girovaghi, dei Coda, dei Pavoletti, dei Lapadula. Gambe prese a prestito per un po’.

La squadra, la competizione è essenzialmente una momentanea e provvisoria unione d’intenti tesa ad un comune obiettivo: vincere. Non c’entra nulla “la famiglia” a meno che il riferimento non sia quella di Charles Milles Manson.

Allenarsi da soli, su quel campo d’erba sintetica posizionato sulla linea di confine tra i sogni e la realtà. Dove le luci gialle forse rischiarano la foschia ma meno i pensieri.

Tempo speso a riconcorre qualcosa, lasciando per strada ogni volta un pezzo d’ingenuità. Correre abbastanza forte da non farsi raggiungere da quel cinismo che è un pragmatismo ma più cattivo.

Tutto questo deve avere un senso, per chi ad ogni stagione riempie un borsone, prende un biglietto e chiama casa un posto alieno, in un paese diverso. Spero davvero che troviate una ragione per dare un senso a questa follia.

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