Il futsal è un gioco di percezione

Accade spesso, negli sport di squadra, di essere travolti dall’impellente necessità di organizzare. Strutturare una squadra da necessità, spesso si trasforma in un abominio di rigidi obblighi tattici.
Accade nel basket, nel football americano e perfino in qualche misura nel calcio.

Da identità di squadra a rigida esecuzione di uno schema. Da spartito a diktat. Costringendo il giocatore ad inseguire una chimera d’informazioni che è impossibile processare e poi eseguire nello convulso stress agonistico di una partita.

Come ama ripetere Venancio Lopez, uno dei maestri tattici del futsal. Si, questo sport giocato con i piedi, al chiuso e con una palla che rimbalza poco. Lopez definisce il futsal: una disciplina di PERCEZIONE. Si, scritto tutto maiuscolo. Perché in quella semplice affermazione si racchiude una intera filosofia.

Quella tipica dei giochi. Perché il futsal è un gioco. Senza scomodare la teoria dei giochi, i suoi modelli matematici di integrazione strategica di modelli razionali. Un gioco che ha delle regole e un finito numero di eventi possibili all’interno d’un modello erratico ad alta ripetibilità.

Le squadre che ricercano una estrema organizzazione, come vi direbbe Carlo Ancellotti, finiscono con l’essere estremamente prevedibili. È irrealistico pensare che un agonista sia in grado di scegliere una soluzione da un ventaglio di possibilità finite che sia ogni volta diversa. Aggravato dallo sforzo fisico del gesto sportivo.

Se il futsal è uno sport di percezione, potrebbe sembrare riduttivo associarlo alla dualità del “giusto e sbagliato”. Si tratta piuttosto d’eseguire una scelta in base alle informazioni percepite. Una soluzione al problema posto dal campo non è mai binaria.

Un giocatore può completare la sua percezione di una situazione di gioco con l’ausilio delle indicazioni di un allenatore. Non può mai accadere il contrario. Helmuth Karl Bernhard von Moltke vi direbbe oggi come nel 1833 che: “nessun piano sopravvive al contatto con il nemico”.

I giocatori sul campo non sono meri esecutori di uno spartito, ne sono gli interpreti. Così come accade nella concertistica, è l’interpretazione personale a rendere unico un brano ripetuto già migliaia di volte. La scelta del giocatore è frutto di una percezione evoluta dalla sua esperienza.

Gli allenatori con più successo sono quelli capaci di scegliere i giocatori migliori, per la loro filosofia di gioco. Capaci allo stesso tempo d’affidarsi alla percezione degli interpreti per assicurarsi il risultato. Nemmeno i giocatori di Football Manager (un videogioco manageriale di calcio ndr) fanno esattamente quello che viene indicato nella tattica. Interpretano un modello probabilistico.

Però eccoli assieparsi in panchina i profeti del modulo, delle giocate fly-by-wire (il sistema di volo dei caccia moderni, letteralmente volare con il filo ndr), del copia e incolla, dello spartito suonato invece che interpretato.

Un peccato. Mortale. Di quelli che richiederebbero l’intervento di una qualche divinità per punire i colpevoli. Lì fuori ci sono squadre belle da guardare giocare, squadre che potrebbero essere bellissime se ci si affidasse più alla percezione del giocatori che alla computazione.

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