La sentenza del Collegio di Garanzia del Coni, l’ultimo grado della giustizia sportiva, dichiara inammissibile il ricorso inoltrato da Kakà contro la FIGC, la Lega Nazionale Dilettanti e la Divisione Calcio a Cinque, circa le nuove norme introdotte.
Il Collegio quindi salva, la Riforma Bergamini. Già in parte ridimensionata ad inizio stagione, segno di una debolezza politica difficile da confutare se non con un sognabile viaggio sulla Luna. Tuttavia chi si stupisce della decisione, probabilmente è ingenuo o ignaro.
In entrambi i casi, va puntualizzato che in ambito sportivo, chi giudica ha inevitabili contiguità con la stessa gestione politica dello sport. Se per rinnovare la legislazione sportiva ci si affidasse alla stessa, probabilmente i calciatori, sarebbero ancora schiavi delle società e dei loro accordi.
La più famosa sentenza del mondo del calcio, la sentenza Bosman, fu un provvedimento giurisdizionale adottato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea. Perché per la Federazione Calcio Belga, Bosman poteva rimanere prigioniero del Liegi per il resto dei suoi giorni.
La giustizia in ambito sportivo è raramente amministrata, spesso si è costretti ad imporla dall’esterno. Anche per il calcetto a cinque è così. Il sistema deve proteggere se stesso se vuole sopravvivere ad un mondo che viaggia più veloce della polvere nei corridoi di Piazzale Flaminio.
In un posto dove è fondamentale cambiare una placca sulla porta, può solo essere un posto per vecchi e non solo anagraficamente. La macchina dello sport è ancora controllata da vecchi dinosauri preoccupati di non essere colpiti dal prossimo meteorite politico.
La riforma Bergamini, al netto della qualità della decisione, resta un passaggio importante mai sottoposto alle società che hanno contribuito ad eleggerlo. Piovuto come una pioggia acida su un prodotto che si cercava di vendere: la Serie A, impoverendola.
Per salvare un prodotto collaterale, la Nazionale, sulla quale la Divisione Calcio a 5 non ha nessun controllo. Uno di quei tabù sportivi, impraticabili, menzionare gli azzurri senza tesserne le lodi. Eppure nei corridoi sotto gli spalti, per chi li ha, negli angoli bui, qualche presidente confessa che della nazionale non gli importa nulla.
La battaglia legale, non si ferma. Nemmeno dopo la condanna a pagare le spese processuali sportive. Certo tremila euro per sentirsi dire: “v’abbiamo fregato” sono una grossa cirfra, ma è parte del prezzo da pagare.
Come accade sempre in questi casi, si ricorre alla giustizia ordinaria. Al Tribunale Amministrativo Regionale sarà sottoposta la lamentala legale di Kakà e soci. Nella convinzione di una delle parti, di poter vedere riconosciute le proprie ragioni in un ambito legale scevro da dipendenze puntuali e specifiche.