Traduzione pessima per uno dei film a carattere sportivo, più iconici di sempre.
Il titolo originale: “A League of their own”, racchiude un doppio significato. Quello d’indicare una lega: “tutta per loro” ma anche di “loro pari”.
Il film raccontava la nascita della prima lega di baseball professionistico femminile, a cavallo di quegli anni che vedevano l’europa incendiata, dalla seconda guerra mondiale. Geena Davis e Tom Hanks hanno contribuito a rendere quel ritratto cinematografico immortale.
Quando su Amazon Prime è diventata disponibile la serie tv, mi sono letteralmente, precipitato. Press Play on Tape. Per scoprire che dell’epopea della pellicola originale non rimaneva nulla.
A League of Their Own è stato soprattutto il racconto di una epoca e di come si può portare al successo una lega sportiva professionistica femminile. Le stesse regole che valevano nell’America puritana degli anni 40 e 50, valgono ancora adesso.
Questa serie tv, è tutt’altro.
Diventa un racconto sull’identità sessuale femminile, ambientato però in una epoca nel quale omosessualità era un reato punito dalla legge. Anche da questa parte dell’oceano atlantico. Sullo sfondo quegli Stati Uniti, profondamente radicati intorno ad una morale, che era lontanissima da quella attuale.
Non è nemmeno questa la parte peggiore tra le scelte di sceneggiatura della serie. C’è una protagonista, di colore, che vuol partecipare ai try-out per le squadre. In quegli stessi anni in cui nella Bible Belt, la segregazione era ancora legge in tutti gli stati.
Per offrirvi una dimensione di quanto sia grottesca la scelta di presentare così, la tematica razziale, vi indico una sola data. La All-American Girls Professional Baseball League chiuderà i battenti nel 1954, un anno prima che Rosa Parks si rifiutasse di prendere posto sull’autobus nei posti riservati ai “negroes”.
Jackie Robinson, il primo giocatore afro americano nella MLB esordirà solo il 15 Aprile 1947, tre anni dopo gli eventi romanzati nella serie. Sfugge a chi vi scrive la necessità di inserire delle tematiche concettualmente e attualmente rilevanti, in un contesto che le riteneva un crimine.
Semplicemente quella è una vicenda che ha attuale preminenza, ma non allora. La All-American Girls Professional Baseball League fu un tentativo visionario di rendere uno sport al femminile appetibile, ricorrendo ad elementi di un proto-marketing.
Erano giocatori veri, ma donne. In quell’America bacchettona, dovevano stare in cucina e sfornare figli. L’argomento principale avverso alla pratica sportiva femminile in quegli anni, s’incunea in un contesto nella quale lo sport era considerato strumento di mascolinizzazione per le donne.
Non nell’accezione dell’orientamento sessuale ma in un più complesso e convoluto sistema sociale, che le voleva ancorate allo stereotipo di fattrici di prole, di strumenti funzionali d’arredo.
Uno stereotipo, che negli angoli bui degli sport al femminile, dominati dagli uomini, si ripete ancora. Una questione, quella dell’identità sessuale che non dovrebbe avere alcuna importanza nella pratica sportiva, che questa pellicola mette in risalto. Sbagliando però clamorosamente il contesto storico.
Se vi capita, non guardatelo. Però il film quello originale, merita.
“Cosa fai piangi? Piangi? Non si piange nel baseball”.