Capitano, mio capitano

Francesco Totti ha rinunciato all’immortalità calcistica quando rifiutò l’offerta di indossare la camiseta blanca del Real Madrid. Aveva “sposato un progetto”. L’idea di vincere nella sua città, nella sua squadra del cuore.

Se avete mai calcato un campo, anche virtuale, in un contesto altamente competitivo, all’interno di una organizzazione, probabilmente avete una qualche idea, di quanto radicale e difficile sia una scelta simile a quella di Francesco Totti.

Qualsiasi agonista, in un momento della sua carriera, s’è trovato nella condizione di vedere i suoi migliori compagni di squadra, quelli spesso con più esperienza, lasciare la società per approdare in compagini più blasonate. Più attrezzate per vincere.

Abbiamo visto quei giocatori come traditori. Ci siamo detti, non faremo la stessa cosa. Salvo poi ritrovarci prima di quanto immaginassimo a valutare l’opzione di cambiare casacca, “per vincere”.

Ho per questa ragione e per aver compiuto una scelta diversa, molto più comune, una fascinazione per coloro che invece restano. Per quelli che scelgono di scendere di categoria, di sposare una idea che non sia quella di vincere subito.

Disposti a dividere il campo con atleti di talento inferiore, nella convinzione sportiva, di poterli aiutare a diventare, migliori. Nutro un profondo rispetto per questi atleti. Pareggiato solo, dalla mia incapacità di comprenderli.

Ci sono anche quelli che sposano: famiglie, progetti e percorsi molto meno prosaicamente perché altrove non potrebbero andare. Di piedi fatti alla Breda è pieno il mondo. Ma non parliamo di loro, qui.

Questi giocatori che restano, diventano spesso: “Il Capitano” o la “bandiera”. Nel futsal però questo termine è utilizzato senza vergogna. Con una disinvoltura forse indotta dalla malcelata necessità, di scimmiottare il calcio.

Capita inevitabilmente così, che quando i rapporti tra “il capitano” e la società s’interrompono. iniziano a puzzare anche i gelsomini. Il cielo si divide in due e un autentico “shitstorm” avvolge l’orizzonte.

Nello sport, a qualsiasi livello ci si dovrebbe astenere dal maneggiare una retorica stucchevole e vecchia di 100 anni. Cresciuta in una società profondamente diversa da quella attuale, radicata intorno a valori di riferimento che non esistono più.

Invece eccoli, affacciarsi al balcone gli emuli di Benito Fornaciari. Annunciano l’eterno amore di quel giocatore, accolto nella famiglia e sbandierano propositi. Tutto per l’effimera durata d’un amore che fa sembrare quello Lucina Savorgnan e Luigi Da Porto, abbiano festeggiato le nozze d’oro.

Desiderosi di tracimare nel ridicolo, eccoli giunti al termine della stagione, spesso anche prima e l’amore familiare e forse non solo quello, scema. Arriva una nuova fascinazione, per qualcosa che luccica di più, che ci amerà di più.

Nuove divinità da adorare, almeno fino alla prossima apostasia. Nuovi amori da coltivare fino al prossimo tradimento. In un ciclo degno del peggior avanspettacolo. Roba che Garinei e Giovannini, chapeau.

Uno sport che vanta una rispettabilità che nei fatti non ha, dovrebbe iniziare dalle cose semplici, quelle facili. Dal comportarsi tra le sue parti, con la medesima correttezza e onorabilità che rivendica al di fuori.

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