Non c’è un prodotto Futsal

Il futsal italiano attraversa un lungo periodo d’illusoria grandeur.
Apparentemente incapace di un sano pragmatismo, indispensabile nei periodi di crisi. Continua a declamare slogan e a chiedere allo specchio chi è la più bella del reame.

In tanti sono pronti a rispondere: “tu se il più bello sport della terra. ” Con le dovute varianti, s’inneggia ad un popolo, alla gente e a quelle frotte d’appassionati che premono furiose ai cancelli degli impianti (che non esistono ndr).

Uno dei leitmotiv, più gettonati, non certo però a livello di “indotto” e “visibilità”, ruota intorno alla parola: PRODOTTO. Spendiamo 0.56 secondi su Google e troviamo questa definizione.

Un prodotto, in economia, è un insieme di attributi tangibili e intangibili di un bene o un servizio volti a procurare un beneficio a un utilizzatore, ottenuto tipicamente attraverso un processo di produzione o creazione a partire da risorse iniziali e con valore aggiunto finale.

Nel futsal il prodotto è la partita. Disomogeneo per natura, in questo composto da due elementi, le squadre, che sono generate da un processo di produzione o creazione a partire da risorse iniziali profondamente differenti.

Basterebbe questo a elidere la narrazione del futsal italico, come prodotto. Vale la pena, approfondire la natura stessa d’un prodotto, per confutare ulteriormente questa leggenda metropolitana.

Il bene, che sia tangibile o intangibile, risponde ad un bisogno. Nei paesi a capitalismo avanzato si è giunti al punto di creare bisogni per i quali poi monetizzare il prodotto che li soddisfa.

Il futsal non appaga, al momento, nessun bisogno. Il calcio ad esempio esaudisce la necessità per molti, di non sentirsi tagliati fuori dalla conversazione generale. Risponde alla necessità di appartenere, s’appoggia alla leva della innata cultura tribale.

Probabilmente risponde, almeno in parte, a bisogni affettivi, di pochi. Solletica l’ego di altri ad un prezzo decisamente competitivo, se paragonato a discipline più diffuse.

Un prodotto, per essere tale, non deve essere solo venduto, ma acquistato. Ad oggi, il futsal italiano viene venduto in perdita, poiché l’acquirente viene pagato per acquistarlo.

Siamo più prossimi all’acquisto di spazi pubblicitari, sotto forma di partite. Nella speranza che questo generi interesse sufficiente a rendere lo spot, un prodotto.

Un biglietto del futsal è l’esempio più lampante dell’assoluta mancanza di pragmatismo della disciplina. Con la stessa cifra di un biglietto di Serie A di futsal si va a vedere la Serie C di calcio, maschile.

Professionisti, squadre radicate sul territorio, novanta minuti contro quaranta, qualcosa da raccontare al bar, il lunedì successivo.

Altro esempio classico di prodotto, assente: le maglie da gioco. Vogliamo davvero parlarne?
Con l’eccezione del Pescara degli Iannascoli, che aveva addirittura pensato a commercializzare quelle “match worn”, non esiste nessun reale mercato.

Quando si è fortunati, le maglie sono da gioco, regalate dalle atlete. Non c’è nessun valore aggiunto, nessun tentativo nemmeno di crearlo. Ci sono società di futsal che iniziano la stagione con le maglie d’allenamento e i numeri stampati nel vicino Decathlon.

Però “prodottoh” che crea “indottoh” è una delle boutade più ricorrenti nel futsal. L’acca alla fine è una citazione, ovviamente. Ma anche un richiamo, al pragmatismo che manca, alla serietà che viene sbandierata a parole, figlia di una moralità indossata solo quando conviene.

Verrebbe voglia di romperlo quello specchio, dal quale in troppi bramano anche effimera adorazione. Il mio di pragmatismo mi ricorda che però si è più disposti ad ascoltare una bugia pietosa e per giunta a pagamento, di una verità che ci costringe a guardarci davvero, dentro.

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