Le frontiere sono fatte per essere oltrepassate. Una riflessione che sembra tracimare dalle mie mani verso la filigrana di questi libricini chiamati passaporti.
Un fruscio ruvido che ho sempre amato. Tanto quanto la carta. Libri, giornali, guide, mappe, cartine e quadri. Un tempo che fu, un tempo che resta anche se la rivoluzione digitale s’è presa il presente.
C’è un mondo che mi scorre intorno, spesso attraverso. Eccomi seduto in uno di questi taxi con i sedili usurati dal tempo e dalle persone.
Lavoratori che vanno e vengono, visi indigeni. Le donne che diventano matrone, imponenti. C’è chi aiuta chi si è perso, chi invece è felice così, senza ritrovarsi. Perché è sempre una donna ad aiutarci, quando ci perdiamo?
Ritrovo la foresta. È di un verde che sembra nero, forse è li per mangiarmi. Finisce però che siamo noi che mangiamo lei.
Attraversano il blu, pappagalli che volano senza cantare. Tanto meno parlare, segno che siamo noi a costringerlo a farlo.
Un po’ come quelli che senza voce, scimmiottano quella di altri. Interessati più al suono che al contenuto, così piegati su se stessi da sfiorare l’onanismo. Li lasci piccoli, pensano di essere diventati grandi e moderni. Una mano di vernice a coprire le crepe, edifici come corpi.
Quando la difficoltà sta nella continuità e non nell’impervietà del percorso. Un aereo, dei tanti, in ritardo è un’opportunità per far scorre i pensieri.
Infondo sono disperso al confine di tre paesi sudamericani, in mezzo alla foresta. Che si può fare se non che arrendersi ai propri pensieri. Una ragazza al tavolo di un bar disegna in modo stupefacente figure umane che si avvolgono su loro stesse.
Una penna in china e una cartolina, nulla di più. Ha gli occhi a mandorla e ascolta la musica nelle cuffie. Ritardi oceanici, ritardi che fanno bene, ritardi che fanno correre la mente, ritardi di quelli che sembra che non arrivi mai e poi invece tutto passa in un attimo.
Prigioniero di un aeroporto, infondo anche di una fede, mi sento Viktor Navorski. I posti in cui ti perdi alla fine li senti anche un po’ casa tua, tanto da iniziare a conoscere e parlare con chi è lì, come te.
Il coraggio e la spensieratezza latinoamericana, quella per cui riesci a sentir dire: “lascio il lavoro da commessa, per fare la croupier in un casino clandestino.”
In fondo ci vestiamo meglio, siamo più acculturati, più educati, più ricchi, ma meno coraggiosi. E il coraggio non si insegna nè si apprende, o ce l’hai o non ce l’hai.
Per questo motivo, forse, la chiamiamo cultura latina. Terribilmente lontano dal ferreo cinismo europeo. L’essere concreti non è proprio uno status of mind, il coraggio nelle proprie idee sì.
Si spengono le luci a led nel corridoio, buio fuori, buoi dentro. Si riparte in cerca di se stessi, perché l’inverno australe non dura mai troppo a lungo, ma vive anche lui alla giornata.